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Celebrato rinnovo dei contratti collettivi nazionali dei lavoratori pubblici e dei metalmeccanici, avvenuto a pochissimi giorni del Referendum Costituzionale del 4 dicembre prossimo, rappresenta solo l’ultimo degl’innumerevoli favori fatti dal Sindacato all’establishment nel corso dei decenni. Mentre già emergono le varie e tante storture firmate da Landini e soci il successo politico- già speso sotto forma di squallide marchette pre-elettorali- concesso al governo Renzi è innegabile e forse decisivo. Perché fare un favore ad un esecutivo responsabile dell’ennesimo assalto alle tutele sociali e al mondo del Lavoro? Perché accettare sorridendo di porgere il collo al cappio del boia? Semplice e triste: perché il sindacato italiano funge da cinghia di trasmissione della reazione più brutale e stolida del Capitale da almeno due generazioni.

I fatti lo dimostrano brillantemente. Il 1978 è una sorta di concept album che preannuncia e prepara la gran parte delle vicende a noi contemporanee. Come tutte le storie dell’uomo, ovviamente, affonda i propri presupposti in momenti ben rintracciabili, esiziali in virtù delle conseguenze determinate. In questo caso l’anno germinale è il 1977. Il segretario del PCI, onorevole Enrico Berlinguer, futuro santino post-ideologico, partecipa nel gennaio a due eventi- uno a Milano ed uno a Roma, rispettivamente innanzi a operai e intellettuali- in cui evidenzia ai militanti e all’opinione pubblica le nuove linee-guida del Partitone in materia socioeconomica. Le troviamo collezionate in un opuscolo dal titolo significativo e agghiacciante: “Austerità. Occasione per trasformare l’Italia”.

Dice Enrico il dolce

L’austerità è un imperativo a cui non si può sfuggire (…) una scelta politica obbligata e duratura [che] significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia. (…) Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità.

Apertura sinfonica, quella sull’austerità, che recepisce e fa proprie le istanze della destra amendoliana (i cosiddetti miglioristi tra le cui fila troviamo Giorgio Napolitano) che già da tempo andavano affermando

imporre una riconversione produttiva, un aumento della produttività generale, ma anche aziendale, l’attuazione di un piano a medio termine che comporta necessariamente, mutamenti, trasferimenti, sacrifici, la mobilità, la lotta all’assenteismo e al corporativismo: solo in questo modo noi comunisti possiamo riuscire a difendere gli inseparabili interessi della classe operaia e della nazione

Ricordiamo un dettagliol’Italia che Berlinguer e soci vogliono trasformare è un Paese che ha subito una recessione- la prima dalla fine della guerra mondiale- ma che comunque, nonostante la crisi petrolifera, la strategia della tensione eterodiretta e una contingenza internazionale non favorevole (sono gli anni della crisi del modello taylor-fordista e della riconversione tecnologica) mantiene buone performance di crescita, innegabili passi in avanti sul piano della giustizia sociale e della democrazia sostanziale e tiene, soprattutto grazie al ruolo delle partecipazioni statali, fondamentali occupazionali non drammaticiCome evidenzia l’impareggiabile Alberto Bagnai, il tasso di disoccupazione sta nei “tremendi” anni di piombo tra il 5 e il 7,6% (ribadiamo che siamo in piena fase di trasformazione del Capitalismo).

L’humus ideologico era stato dunque preparato. Ora occorreva tradurre in pratica le istanze che il Capitale aveva da tempo preparato a fronte dell’avanzamento deciso delle conquiste di civiltà del movimento operaio e della democrazia sociale scolpita in Costituzione. Dicevamo del 1978. Nel gennaio di quell’anno il segretario della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, compagno Luciano Lamaannunciava in un’intervista su Repubblica l’avvio della nuova strategia del sindacato, sintetizzata in un titolo tafazziano: “Lavoratori, stringete la cinghia”. Alla maniera del leader del PCI, Lama afferma convintamente che

se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro (a Lama e al Capitale, nda) che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea

A Scalfari che chiede spiegazioni dettagliate, il nostro risponde

la politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati nell’arco dei tre anni di durata dei contratti collettivi, l’intero meccanismo della Cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a fondo.

Seguendo una logica del tutto contorta e suffragata dal nulla, Lama risulta convinto che o si difende chi ha già un’occupazione o si combatte la disoccupazione. Sfugge al compagno segretario che, ad esempio, moderare i salari e dunque contribuire alla depressione della domanda interna deprimerebbe ancor di più le possibilità lavorative di chi sta- suo malgrado- con le mani in mano. Ma si sa, l’economia non è una scienza….Nemmeno un mese dopo, nel febbraio, all’EUR la CGIL vara l’omonima svolta in cui si giura fedeltà alla moderazione salariale introducendo, en passant, per la prima volta l’accettazione del sindacato a forme di flessibilità del lavoro in cambio di nebulose e incerte richieste (inesaudite) di riforme nel campo edile, dei trasporti e della finanza pubblica.

I risultati? Innegabili, e soprattutto rapidi.

L’appecoramento della Triplice ha permesso (nel tempo record) di due giorni la stesura e la messa in atto di un piano d’austerità duro e crudo. Attenzione, lo ribadiamo, alle date: siamo nella seconda settimana di febbraio. Il repentino cambio d’atteggiamento della Federazione Unitaria (che raccoglie le tre confederazioni) si spiega nell’ottica del progressivo avvicinamento del PCI agli scranni del governo secondo le logiche sotterranee del compromesso storico.

Sull’altare dell’ingresso dei comunisti nell’esecutivo Lama e compagni fanno buon viso offrendo la marchetta della svolta “moderata” e pro-austerità al padronato con il sostanziale accordo della CISL (notoriamente d’area DC). Il trionfo delle “convergenze parallele” a cui tanto i lavoratori italiani avevano dovuto sacrificare pro domo PCI doveva quindi celebrarsi un mese e due giorni dopo la svolta dell’EUR, il 16 marzo del fatale 1978. Quel giovedì, infatti, il Parlamento avrebbe assegnato la fiducia al neo-costituito IV governo Andreotti, il primo con l’appoggio esterno del partito di Berlinguer. Quel giovedì, com’è noto, il presidente della Democrazia Cristiana e deus ex machina dell’intera operazione, onorevole Aldo Moro, a Montecitorio non arrivò mai. I 55 giorni del sequestro e dell’assassinio del leader democristiano costituiscono uno dei punti di svolta esiziali della storia repubblicana: in questa sede quell’interminata agonia che da marzo ai primi di maggio tenne un popolo e uno Stato nell’angoscia e nell’orrore viene giudicata come un essenziale atto dell’attacco al cuore della Sovranità Italiana, sulla scia dell’affaire Mattei, che non poteva passare inosservato ai padroni del vapore. Dichiarava il presidente di Confindustria, tal Guido Carli, pochissimi giorni prima del ritrovamento del cadavere di Moro in Via Caetani

La composizione nel conflitto tra le diverse culture che ha lacerato la società italiana è avvenuta sul terreno del populismo (…) nel quale classi dirigenti prive di autorità conservano il potere accogliendo domande di tutti  ricomponendole nell’inflazione. Dallo statuto dei lavoratori ai modi secondo i quali viene applicato, dalla contestazione delle gerarchie alla soppressione di ogni principio meritocratico, dalla distribuzione di assistenza pubblica ai più all’abuso di essa, il sistema politico, sociale, economico è andato degradando verso forme di anarchia incompatibile con l’esercizio della libertà.

Intervento-chiave e ad oggi sottovalutato nelle ricostruzioni di quell’anno, che evidenzia un deciso cambio di passo dell’azione padronale in risposta alle titubanze “collaborazioniste” del sindacato. Alla maniera di El Alamein, la prima metà del 1978 costituisce quindi quella fine dell’inizio per uno Stato Sociale- e le relative istanze delle classi subalterne- ancora in costruzione e già sotto duro e mortale attacco. Nella generale acquiescenza del clero intellettuale, solo Federico Caffé aveva inteso a fondo la triste rivoluzione tolemaica che allora germinava

Questo arretramento culturale si traduce, fatalmente, in una deformazione nell’attribuzione delle responsabilità di una situazione che si conviene definire meramente di emergenza. Frasi del genere, al pari delle rampogne per il permissivismo scolastico (e occorrerebbe spesso chiedersi da quali pulpiti venga la predica) o al pari dell’ipocrita lacerarsi le vesti nei confronti dell’assenteismo operaio e della microconflittualità aziendale, finiscono per essere vincenti nella pubblica opinione: e vi contribuisce, a mio avviso, la reazione inadeguata e inefficace delle forze sindacali.

Anche per esse vale l’alto monito a non aver timore: il che, tra gli altri significati, ha anche quello di non dissociare l’autocritica che si consideri necessaria da una precisa, energica, documentata opera di controinformazione. La vera emergenza non è nell’economia, il cui quadro è molto meno allarmante di quanto lo si prospetti con orchestrata ma deformante abilità; bensì nel tentativo di bloccare ancora una volta l’ascesa, necessariamente convulsa, dei ceti popolari, mediante una normalizzazione di tipo moderato. (…) che il fastidio del tutto esplicito per le soluzioni non elitarie e l’artificiosa attribuzione della qualifica di “populismo” a ogni aspirazione di avanzamento sociale avvengano con la tacita acquiescenza delle forze politicamente progressiste è ciò che rende particolarmente amaro il periodo che viviamo.

La scelta del tradimento badogliano produrrà, nel breve volgere di un lustro, la perdita della sovranità monetaria (ingresso nello SME), l’affrancamento della Banca Centrale dal Tesoro (nel 1981) e il conseguente- e artato- dissesto delle finanze dello Stato, gentilmente offerto da Ciampi e Andreatta alla speculazione finanziaria nel corso dei ruggenti anni Ottanta. Un disastro, quello del 1978, da cui sono germinate tutte le storture drammatiche che oggi affogano milioni di lavoratori italiani nella miseria e nello sfruttamento, ancora ignominiosamente ignorate da tanti burattini ciancianti, la cui lingua risulta impegnata, ahinoi, in altre e più servili occupazioni.

Antonio martino Su http://www.lintellettualedissidente.it/storia/sonno-eterno-del-sindacato/

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