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VERSO IL REFERENDUM. Non è certo compito facile configurare in modo razionale ed efficace i rapporti tra i diversi livelli di governo di uno Stato. Non era facile nel Regno d’Italia, quando l’amministrazione era articolata su due livelli, lo Stato centrale con le sue articolazioni periferiche, quali le prefetture e le questure e gli enti locali, in primo luogo i comuni. Ed è ancor più difficile dal 1948, quando il Costituente ne ha inserito un terzo, quello regionale e i compiti della Repubblica si sono enormemente estesi.

Il nostro regionalismo è da sempre un esperimento travagliato, che ha imposto continui ripensamenti. Nel disegno iniziale le regioni erano concepite soprattutto come enti di programmazione dotate, in un numero ristretto di materie, di autonomia legislativa, da condividere peraltro con lo Stato. Tale ripartizione – coerente per i tempi e per le funzioni – lasciava allo Stato la disciplina dei principi generali e alle regioni i dettagli.

Al momento della prima attuazione, a partire dagli anni settanta, il legislatore prese una strada diversa, rendendo le regioni soprattutto soggetti di amministrazione attiva, con una limitata autonomia politica.

La seconda stagione riformatrice, dominata dal mito del “federalismo”, culmina nel 2001 con la riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione, che potenzia – forse troppo, per opinione quasi unanime – le competenze legislative delle regioni, espandendo le materie in cui esse concorrono con lo Stato.

Si prospetta ora una terza fase. La riforma introduce, come richiesto dalla stessa normativa costituzionale, un Senato espressione degli enti territoriali, completando la riforma del 2001. D’altro lato, abolisce la competenza legislativa concorrente, fonte di numerosi conflitti costituzionali, e aumenta da circa trenta a cinquanta le materie spettanti unicamente allo Stato. Tra esse, il coordinamento della finanza pubblica, l’ordinamento delle professioni e della comunicazione, le infrastrutture e le grandi reti di trasporto. Inoltre, reintroduce la “clausola di supremazia”, che consente allo Stato di intervenire in ogni materia, a tutela dell’interesse nazionale.

La riforma del 2016, tuttavia, non sembra mortificare le autonomie territoriali. Prevede che le regioni legiferino in ogni materia non riservata allo Stato e comunque in alcuni ambiti espressamente individuati, ove spetta loro programmare e organizzare l’erogazione dei servizi ai cittadini e al territorio.

L’idea è a un tempo antica e nuova: antica perché si torna all’origine del pur giovane regionalismo italiano, nuova perché orientata a ripartire i compiti tra i due livelli di governo in un modo forse più trasparente e, sperabilmente, più efficace. In questo contesto, allo Stato spetterebbe, oltre ai compiti tradizionali (molti dei quali già “devoluti” verso l’Europa, quali la moneta), il potere di emanare norme generali e comuni (ad esempio in materia sanitaria, assistenziale, nelle politiche del lavoro, nella formazione professionale, nel governo del territorio). Alle regioni competerebbe la facoltà di intervenire per dare forma compiuta alla struttura funzionale preposta all’erogazione dei servizi (si pensi alle “reti” di strutture sanitarie e sociali, alla declinazione regionale delle infrastrutture).

Va detto che la novella non rivoluziona l’attuale equilibrio. Ad esempio, le varie riforme sanitarie che si sono succedute (da ultimo, la riforma Bindi) hanno stabilito il quadro legislativo generale, lasciando poi alle regioni il potere di regolamentare, in modo anche molto differenziato, le strutture sanitarie. Questo modo di procedere ha, come è noto, creato diversi “sistemi sanitari regionali” alcuni ben funzionanti, altri mal strutturati, dispendiosi e spesso “commissariati”.

In estrema sintesi, la “riforma della riforma” del titolo V modifica più il testo che il contesto. Recepisce indirizzi già in atto e avallati dalla Corte costituzionale che, nel tracciare i confini tra i diversi livelli di governo, ha “riscritto” i confini tra i poteri di Stato e regioni, sacrificando spesso queste ultime. Inoltre, mira a dare nuovo stimolo alla dimensione regionale, consentendo maggiori spazi di autonomia a chi mantiene i bilanci in ordine.

Nel complesso, dunque, un intervento con effetti piuttosto modesti, che prova a combinare esigenze di uniformità e di differenziazione, alla ricerca di un equilibrio tra centro e periferia in ogni tempo e latitudine inevitabilmente precario e incerto.

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-11-04/come-cambia-titolo-v-172509.shtml?uuid=ADHP11lB

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