(Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 23533/16; depositata il 18 novembre). Un lavoratore, avendo riportato due infortuni alle mani, aveva ottenuto un risarcimento ad opera dell’INAIL con connesso riconoscimento di una rendita per inabilità permanente.
Tale sentenza veniva appellata dall’istituto previdenziale, il quale, a seguito dell’espletamento di una nuova ctu che riqualificava l’evento da infortunio a malattia professionale, lamentava la violazione dell’art. 112 c.p.c. e «produzione del vizio di ultrapetizione», in quanto «non era possibile trasformare un infortunio in malattia professionale, senza che fosse stata presentata a monte un’apposita domanda ed un normale iter amministrativo».
La Corte d’appello, quindi, riformava la sentenza di primo grado. Avverso questa decisione, il lavoratore decideva di ricorrere in Cassazione.
Le doglianze del lavoratore. Due sono i motivi presentati dal ricorrente: da una parte, il fatto che «il lavoratore non ha alcun onere di presentare un’apposita domanda amministrativa onde ottenere la tutela assicurativa né di qualificare gli eventi» infortunistici, essendo tale qualificazione compito del giudice; dall’altra, il fatto che la pretesa avanzata fosse stata considerata «sotto il profilo letterale, senza valutare il contenuto della stessa».
Tali motivi, valutati unitariamente, sono ritenuti fondati dalla Suprema Corte.
La qualificazione giuridica dell’infermità del lavoratore, infatti, non preclude in alcun modo al giudice di «conoscere e decidere la domanda proposta in giudizio dal lavoratore», in quanto il diritto alla prestazione assicurativa risponde ad una «visione unitaria».
La Corte di Cassazione si era già espressa sul contenuto degli oneri dell’assicurato, che si limitavano alla semplice specificazione dei sintomi patologici, «essendo il giudice vincolato solo dai fatti morbosi dedotti, e non dalla loro definizione medica». Dal punto di vista processuale, inoltre, l’accertamento della malattia «costituisce mera riqualificazione giuridica della fattispecie» e non, come sosteneva il giudice d’appello, «una vera e propria modifica dei fatti costitutivi della domanda».
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