Sentenza Corte conti Liguria n.153-2014
SENT.153/2014 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LIGURIA
DIRITTO
In via pregiudiziale, deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione sollevata omissis relativamente ai fatti dannosi verificatisi anteriormente al 3/4/2009, ossia al quinquennio precedente la notifica dell’invito a dedurre effettuata in data 3.4.2014. L’eccezione è infondata.
In proposito si osserva che il diritto al risarcimento del danno, nei giudizi di competenza della Corte dei Conti, è disciplinato dall’art. 1,c. 2, della legge n. 20 del 1994, in base al quale lo stesso “si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”.
Ciò premesso, la Sezione ritiene che nella specie ricorra l’ipotesi del doloso occultamento in relazione alla quale il Legislatore con la norma suindicata ha espressamente sancito il principio per cui la prescrizione decorre dalla data della sua scoperta.
A tale riguardo, la giurisprudenza della Corte dei conti, pur avendo chiarito da tempo che l’occultamento non può coincidere, puramente e semplicemente, con la commissione (dolosa) del fatto dannoso, ma richiede un’ulteriore condotta indirizzata specificamente ad impedirne la conoscenza, ha tuttavia precisato che in talune fattispecie criminose, quale quella dedotta in cui i convenuti hanno posto in essere condotte finalizzate a dare una falsa rappresentazione della realtà – presenza in servizio -, la volontà di occultare il danno deve ritenersi in re ipsa,cioè insita nelle concrete modalità di svolgimento dei fatti, le quali implicano un obiettivo impedimento ad agire – di carattere giuridico e non di mero fatto -. In tali casi l’inizio del termine di prescrizione è stato pacificamente individuato, non nel momento in cui il fatto viene meramente scoperto, ma allorché il danno stesso viene accertato in tutte le sue componenti, a seguito del provvedimento di rinvio a giudizio in sede penale, senza che alcun rilievo abbia la mera notizia del fatto (cfr., ex plurimis, SS.RR.; sentenza 25.10.1996, n. 63; Sezione Prima, nn. 712 e 1115 del 2014; Sezione Seconda, n. 296 del 2007; Sezione Terza, n. 10 del 2002 e n. 311 del 2011; Sezione App. Sicilia, n. 66 del 2004).
Acclarato, dunque, che nella specie ricorre un’ipotesi di doloso occultamento del danno erariale, ai fini dell’individuazione del dies a quo, dal quale far decorrere la prescrizione quinquennale, deve aversi riguardo alla data dell’11 settembre 2013, allorché è stata depositata la richiesta di rinvio a giudizio innanzi al Tribunale di La Spezia. Per cui nella data in cui è stato notificato al omissis l’invito a dedurre (3.4.2014) il termine quinquennale di prescrizione era ancora quasi interamente da decorrere.
Sempre in via preliminare, deve respingersi l’eccezione, sollevata da tutti i convenuti costituiti, di inutilizzabilità delle prove acquisite nel processo penale (tabulati telefonici, riprese video attraverso l’installazione di viodeocamere……), in quanto frutto di attività di indagine gravemente viziata per violazione della Convenzione di Budapest del 2001, nonché di decisione della Corte di Giustizia Europea del 2004.
Al riguardo questa Sezione ha già avuto occasione di affermare con la sentenza n. 269/2011 (cfr., sent. n. 219/2013), in sintonia con la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che l’adozione di più stringenti limitazioni, in materia di acquisizione delle prove, riguarda esclusivamente il processo penale, in cui viene posta a rischio la libertà personale dell’imputato o dell’indagato (Cass. SS.UU. n. 12717 del 2009, n. 15314 del 2010; Cass. Sez. Trib. n. 4306 del 2010).
Sarebbe, pertanto, arbitrario estendere l’efficacia di una norma processuale penale (art. 191 c.p.p.), posta a garanzia dei diritti della difesa in quella sede, ad un ambito processuale diverso, come quello contabile, munito di regole proprie ispirate all’accertamento della verità, nel quale le risultanze degli atti compiuti dall’A.G. in un precedente processo entrano non come prove in senso tecnico, ma come elementi da valutare ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., che concorrono ex art. 116 c.p.c. alla formazione del libero convincimento del giudice (Corte conti, Sez. Liguria, n. 269/2011, cit.; Sez. Prima d’appello n. 3 del 2011 e n. 133 del 2004; Sez. Terza d’appello nn. 75 e 371 del 2005).
In tal caso il rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa è assicurato dalla possibilità riconosciuta alle parti di svolgere proprie osservazioni critiche e di dedurre altre prove sui medesimi fatti.
Passando ad esaminare il merito in senso stretto, oggetto del presente giudizio è la domanda risarcitoria promossa dalla Procura nei confronti dei convenuti per i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti dal Ministero dell’economia e delle finanze in conseguenza di numerose assenze ingiustificate dal servizio.
Al riguardo, il Collegio osserva anzitutto che, sulla base dei numerosi elementi probatori versati nel giudizio, stante la loro gravità, precisione e concordanza, ex art. 2729 c.c., la condotta assenteistica dei convenuti risulta incontrovertibilmente accertata.
Ed invero, premesso che il sistema di rilevamento delle presenze in ufficio presso la Commissione Tributaria Provinciale di La Spezia veniva effettuato, ai sensi dell’art. 23, comma 3, lett. a) ed e) del C.C.N.L. del 1995, attraverso timbrature giornaliere in entrata e in uscita, le quali venivano salvate dal programma installato nel lettore (SIGMA e dal 2010 SIAP-SPRING), è stato accertato che in numerose giornate dal 2005 al 2010 il omissis (il solo per il quale il controllo delle presenze è stato esteso a ritroso sino al 2005) e da gennaio a settembre 2010 i restanti convenuti avevano omesso di timbrare il proprio cartellino, mediante la “strisciatura” del “badge” personale, sia in entrata che in uscita o solo in entrata o in uscita, mentre gli orari di presenza erano stati fatti risultare da inserimenti manuali effettuati a posteriori, sulla base di autodichiarazioni degli interessati, comportanti eccedenze di orario rispetto alle registrazioni del rilevatore automatico degli accessi e delle uscite.
Con riferimento alla dedotta inattendibilità dei tabulati relativi alle timbrature in entrata e in uscita effettuate dai convenuti mediante “strisciata” del badge, deve rilevarsi che le stesse, contrariamente all’avviso espresso dai difensori, risultano essere state regolarmente acquisite dal programma installato sul lettore ottico ed è di queste che si è tenuto conto per verificare l’effettiva presenza in servizio dei dipendenti. I problemi lamentati dalla Dirigente della Commissione, cui fanno riferimento i difensori, riguardavano il fatto che le timbrature regolarmente salvate dal programma dei “files day”, non venivano acquisiti dal programma che avrebbe dovuto elaborarli (sulla base dell’orario di lavoro ordinario, delle cause di interruzione o assenza, dei recuperi fatti……), ai fini della validazione da effettuarsi ad opera del funzionario responsabile, per cui la Dirigente ha provveduto manualmente alla loro validazione mensile, previa estrazione delle registrazioni effettuate sul programma del lettore, accorgendosi in tale circostanza che per alcuni dipendenti (i convenuti), tra cui il direttore dell’epoca omissis le timbrature di diverse giornate mancavano del tutto o erano incomplete (era stata timbrata solo l’entrata o solo l’uscita), donde la necessità di richiedere a questi ultimi di autocertificare l’orario di servizio osservato per poter procedere alla validazione.
Al fine di dimostrare l’inattendibilità del sistema automatico di rilevazione dei dati delle presenze, i difensori del omissis hanno prodotto diversi atti della Commissione Tributaria, a sua firma, protocollati nelle giornate in cui lo stesso, secondo l’accusa, avrebbe fatto risultare falsamente la propria presenza sul luogo di lavoro.
Al riguardo, premesso che molti di detti documenti risultano firmati in giorni per i quali non è stata contestata l’assenza per l’intera giornata lavorativa (in via meramente esemplificativa, seguendo l’ordine di produzione, si evidenziano i documenti protocollati 2 marzo 2006, 9 giugno 2006, 19 giugno 2006, 12 luglio 2006, 8 novembre 2006, 30 novembre 2006, 21 dicembre 2006), il collegio ritiene, in ogni caso, fondata l’obiezione del Pubblico Ministero in ordine alla inidoneità di tali documenti a provare la presenza in ufficio del omissis nella data in cui sono stati protocollati, essendo noto che non vi è necessariamente coincidenza tra la data in cui un atto viene firmato e quella in cui viene protocollato.
Tanto considerato circa la piena attendibilità dei tabulati presi in considerazione per la determinazione dei periodi di assenza ingiustificata dal servizio, va rilevato che le condotte dolosamente assenteiste dei convenuti risultanti dalle discordanze tra le presenze registrate mediante la strisciata elettronica del badge e gli inserimenti manuali hanno trovato conferma nel confronto tra gli orari di ingresso ed uscita dall’ufficio e le cellule telefoniche agganciate dai dipendenti nei periodi in cui gli stessi risultavano essere sul luogo di lavoro.
Dai tabulati telefonici acquisiti agli atti è risultato, infatti, che le utenze dei convenuti omissis durante l’orario in cui figuravano essere in ufficio agganciavano celle telefoniche distanti chilometri dallo stesso.
I difensori eccepiscono l’irrilevanza di tale elemento di prova, stante che lo stesso proverebbe la presenza in un luogo distante dall’Ufficio dell’utenza telefonica, ma non del suo titolare, che avrebbe potuto darla in uso ad altri.
L’assunto è infondato. Ed invero, le indagini hanno anche evidenziato che nei nove mesi in cui è stato sottoposto a controllo il traffico telefonico delle utenze dei convenuti queste hanno spesso comunicato tra loro – fino a circa 250 volte omissis – sì che, essendo detto accertamento agli atti del processo, e quindi noto ai difensori, appare all’evidenza pretestuoso ipotizzare che fosse un parente o un amico del titolare l’utilizzatore delle utenze predette.
Ulteriore elemento atto a riscontrare in modo irrefutabile le dolose condotte assenteiste dei convenuti omissis è dato dalle riprese delle telecamere poste negli uffici della Commissione Tributaria, regolarmente autorizzate con decreto del giudice.
Da dette registrazioni video-fotografiche risulta che omissis erano soliti scambiarsi reciprocamente i cartellini di rilevamento delle presenze (badge), strisciarli sull’apposito apparato elettronico, sostituendosi reciprocamente al titolare.
Sulla base della rilevanza e concordanza dei numerosi elementi probatori versati nel giudizio dall’accusa, non può dunque revocarsi in dubbio che tutti i convenuti abbiano tenuto le contestate condotte assenteiste come pure il fatto che, nell’assentarsi arbitrariamente dal lavoro, gli stessi abbiano violato il fondamentale obbligo di servizio, rappresentato dal dovere di fornire la prestazione di lavoro secondo le condizioni previste dal rapporto di impiego intrattenuto con la propria amministrazione, cagionando alle pubbliche finanze un danno pari ai compensi da questa indebitamente erogati senza ricevere in cambio la corrispondente attività lavorativa.
Dette condotte risultano certamente caratterizzate dall’elemento soggettivo del dolo, atteso che l’abitualità e le descritte modalità con cui sono state poste in essere non possono non presupporre la piena consapevolezza e volontà di violare i propri doveri d’ufficio.
La Sezione non ha, però, trovato riscontri probatori al vincolo di solidarietà apoditticamente prospettato dalla Procura tra tutti i convenuti.
A tale riguardo va considerato che il danno contestato dalla Procura è relativo ai periodi lavorativi in cui gli interessati sono risultati falsamente presenti in ufficio a seguito del raffronto tra l’orario inserito a sistema manualmente sulla base di autocertificazioni e quello risultante dalle timbrature in entrata e in uscita effettuate dagli interessati con la strisciatura del proprio badge.
Orbene, con riferimento a tale danno, non vi è prova del fatto che ciascuno dei convenuti abbia concorso con la propria condotta a porre in essere gli illeciti riguardanti gli altri convenuti, che nella prospettazione attorea, giova ripeterlo, sono rappresentati dall’inserimento manuale di orari di servizio maggiori di quelli risultanti dalle timbrature effettuate con il badge.
Né, a tal fine, può soccorrere l’acquisita prova videofotografica dello scambio reciproco dei badge tra i convenuti omissis : detti comportamenti fraudolenti, sopra valutati quali indizi della condotta assenteista dei predetti convenuti, sono estranei allo specifico danno oggetto di contestazione, il quale scaturisce unicamente dall’inserimento manuale di un falso orario di lavoro e non dalla timbratura fatta dal collega.
Quanto alla somma per cui deve essere pronunciata condanna in relazione al danno patrimoniale inferto da ciascuno dei convenuti all’Amministrazione di appartenenza, la Sezione ritiene corretta la quantificazione fatta dalla Procura, e pertanto gli stessi debbono essere condannati a rimborsare le somme indebitamente percepite nella misura seguente:
omissis
Dette somme dovranno essere rivalutate a decorrere dall’11 settembre 2013, data del rinvio a giudizio dei medesimi.
Passando all’esame dell’altra voce di danno richiesta dalla Procura per la grave lesione all’immagine subita dall’Amministrazione finanziaria in conseguenza dell’accertata fraudolenta condotta assenteista tenuta dai convenuti, la Sezione osserva anzitutto che il requirente ha posto a fondamento della propria pretesa risarcitoria l’art. 55-quinquies, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall’art. 69 del D.Lgs. 27ottobre 2009, n. 150, il quale statuisce che “Il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente,……….. ferme le responsabilità penali e disciplinari e le relative sanzioni è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno all’immagine subiti dall’amministrazione”.
La predetta disposizione, nel prevedere al comma 2 l’obbligo specifico di risarcire il danno connesso all’assenteismo realizzato nel pubblico impiego con modalità fraudolente, ha nel contempo configurato tale condotta assenteista come una specifica ipotesi di responsabilità per danno all’immagine dal carattere innovativo rispetto al previgente quadro normativo e svincolata dalle condizioni e dai limiti posti dal legislatore con l’art. 17, comma 30-ter, del D.L. n. 78/2009, convertito dalla L. n. 102/2009.
La specialità di detta disposizione permette di superare l’eccezione di inammissibilità dell’azione sollevata dai difensori dei convenuti per mancanza di sentenza irrevocabile di condanna (cfr. Sez. Toscana n. 46 del 2013 e Sez. Abruzzo n. 414 del 2012).
Il fatto, poi, che l’art. 55 quinquies, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 configuri un’ipotesi di danno all’immagine nuova comporta l’irretroattività della disposizione e, quindi, l’applicabilità della stessa ai soli comportamenti posti in essere successivamente alla sua entrata in vigore, per effetto del principio generale ricavabile dall’art. 11 delle Preleggi, secondo cui la Legge non dispone che per l’avvenire (Sez. Piemonte, n. 54 del 2013; Sez. Trentino- Alto Adige n. 12 del 2012; Sez. Basilicata, n. 54 del 2013; Sez. Toscana n. 169 del 2013).
Ciò premesso, passando ad esaminare il merito di tale pretesa, si osserva che nel vigente ordinamento il “danno all’immagine” ed “al prestigio” della Pubblica Amministrazione – riconducibile alla categoria del danno “non patrimoniale”, ex art. 2059 cod. civ. – consiste nella diminuita reputazione dell’ente presso i consociati, o presso una certa platea di consociati, conseguente alla lesione di diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione all’art. 2 e all’art. 97 per la “Pubblica Amministrazione” nel suo complesso (Corte conti, Sez. III, n. 335 del 2009; Cass. sentenze nn. 8827, 8828 del 2003, n.12929 del 2007, n. 26972 del 2008).
La giurisprudenza della Corte di cassazione, a conclusione di un complesso percorso interpretativo, ha superato la concezione che individuava tale danno nella lesione dell’immagine in sé (danno evento), pervenendo ad una configurazione dello stesso come conseguenza della predetta lesione, rappresentata dalla diminuita considerazione che l’ente ha presso i consociati (danno conseguenza). Tale danno, secondo quanto affermato nella sopra citata sentenza della Corte di cassazione n.12929 del 2007, risulta risarcibile “indipendentemente dal fatto che l’incidenza negativa sull’agire delle persone fisiche che rappresentano gli organi dell’ente abbia determinato un danno in senso economico, cioè un danno patrimoniale”; ed infatti, l’agire dell’ente con la consapevolezza di dover superare la negatività connessa alla lesione dell’immagine non potrà non risentirne in termini di efficacia, “onde – a prescindere da eventuali riflessi economici – tale conseguenza integra di per sé un danno non patrimoniale” .
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni di appello della Corte dei conti (ex plurimis, Sez. III, n. 143/2009; Sez. II n. 106/2008) e del surriferito più recente orientamento della Corte di cassazione (successivo a SS.RR. n. 10/QM/2003), le Sezioni Riunite di questa Corte hanno rivisitato tale figura di danno erariale, precisando che <<il danno all’immagine della Pubblica amministrazione …….. coincide non già con il fatto lesivo (in ipotesi di condotta di corruzione), ma con la lesione (perdita di prestigio), che costituisce una “conseguenza” (art. 1223 c.c.) del fatto lesivo>> (Corte conti, SS.RR. sent n. 1/2011/QM; cfr., Sezione Prima sent. n. 316 del 2011).
In proposito osserva, tuttavia, la Sezione che, indipendentemente dalla configurazione del danno all’immagine – come danno-evento o come danno-conseguenza – attenendo tale pregiudizio ad un bene immateriale, la prova è, in ogni caso, eminentemente presuntiva, potendo costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice (Cass. sent. n. 26972 del 2008), mentre la sua quantificazione va disposta in considerazione della concreta dimensione della lesione stessa, da valutare in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non essendo possibile l’esatta determinazione dell’ammontare di un danno di tale natura (Corte conti, Sez. III, sent. n. 143/2009, cit.; Cfr. Sez. Liguria, sent. n. 184 del 2012).
Tanto rappresentato, nel caso di specie, non può dubitarsi che l’abituale condotta assenteista realizzata con modalità fraudolente dai convenuti abbia arrecato pregiudizio all’immagine del Ministero dell’economia e delle finanze, ingenerando presso l’opinione pubblica un notevole discredito nei riguardi dell’attività istituzionale propria della Commissione Tributaria.
Passando alla quantificazione di detto danno, la Sezione ritiene di dovervi procedere in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., tenendo conto dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte dei conti, e, in special modo, dalle Sezioni Riunite nella sentenza n. 10/QM/2003.
In particolare, nella specie, vengono in considerazione:
– la rilevanza del servizio prestato dagli interessati in quanto dipendenti di un Ufficio preposto alla gestione del contenzioso in materia fiscale, nonché per omissis la posizione rivestita di Direttore della Commissione Tributaria;
– la reiterazione di comportamenti socialmente riprovevoli e penalmente rilevanti posti in essere in assenza di qualsiasi giustificazione;
– la propalazione della notitia criminis a livello esclusivamente locale, i fatti essendo stati riportati, come documentato dall’accusa, dalla stampa locale (“Il Secolo XIX”, “La Nazione”, “La Gazzetta della Spezia”).
Infine, con riguardo omissis, cui è stato contestato il danno all’immagine, oltre che per le assenze ingiustificate relative al 2010, anche per quelle degli anni precedenti (dal 2005), osserva il collegio che nella determinazione del danno non patrimoniale deve tenersi conto esclusivamente dei comportamenti assenteisti tenuti dallo stesso successivamente al 15 novembre 2009, data di entrata in vigore dell’art. 55 – quinquies del d.lgs. n. 161/2001, disposizione che per i motivi suesposti non può avere efficacia retroattiva.
Ciò posto, in applicazione degli elementi sopra considerati, il collegio ritiene di dovere ridimensionare la quantificazione di tale voce di danno operata dalla Procura, che ha chiesto la condanna, in via solidale, dei convenuti per la somma complessiva di euro 40,000,00. Ne consegue che per il danno all’immagine inferto all’Amministrazione di appartenenza debbono essere condannati omissisTutti senza vincolo di solidarietà per i motivi già esposti.
Conclusivamente, alla luce delle osservazioni che precedono, i convenuti debbono essere condannati in favore del Ministero dell’economia e delle finanze, a titolo di dolo, ma senza vincolo di solidarietà, al pagamento delle somme seguenti:
omissis
Le somme predette dovranno essere rivalutate, secondo gli indici ISTAT, a decorrere dal’1 gennaio 2013 fino al deposito della presente sentenza; da quest’ultima data le somme risultanti dovranno essere maggiorate degli interessi legali fino all’integrale pagamento.
Le spese seguono la soccombenza e sono poste a carico dei convenuti in parti uguali.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Liguria, definitivamente pronunciando, in parziale accoglimento della domanda attrice, condanna i convenuti al pagamento in favore del Ministero dell’economia e delle finanze delle somme seguenti:
Le somme per cui è condanna dovranno essere maggiorate della rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, a decorrere dall’11 settembre 2013 fino al deposito della presente sentenza; da quest’ultima data sulle somme risultanti saranno dovuti gli interessi legali fino all’integrale pagamento.
Condanna, inoltre, i medesimi al pagamento in parti uguali delle spese di giudizio che vengono liquidate in Euro.1441,05 (millequattrocentoquarantuno/05)
Così deciso in Genova, nella camera di consiglio del 3 dicembre 2014.
L’ Estensore Il Presidente
deposito in segreteria 30 dicembre 2014
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Truffa aggravata per il dirigente che protegge l’assenteista
La Cassazione, con sentenza n. 35344 del 29 settembre 2011, ha affermato che rischia la condanna per truffa aggravata il dirigente che a fronte della falsa attestazioni della presenza in ufficio da parte di alcuni dipendenti, non solo non si adoperi per sanzionarli ma addirittura ostenti nei loro confronti un atteggiamento di favore tale da incoraggiarne la condotta fraudolenta.
La Suprema Corte evidenzia che: “concorre nel reato con condotta commissiva – anziché mediante omissione ai sensi dell’art. 40, 2 comma c.p. – il dirigente di un ufficio pubblico che non soltanto non impedisce che alcuni dipendenti pongano in essere reiterate violazioni nell’osservanza dell’orario di lavoro, aggirando in modo fraudolento il sistema computerizzato di controllo delle presenze, ma favorisca intenzionalmente tale comportamento creando segni esteriori di un atteggiamento di personale favore nei confronti dei correi, in modo tale da creare intorno ad essi un’aurea di intangibilità, disincentivare gli altri dipendenti dal presentare esposti o segnalazioni al riguardo e così affievolire, in ultima analisi, il cosiddetto ‘controllo sociale’ “….”tale condotta ha valenza agevolatrice del reato anche solo per il sostegno morale e l’incoraggiamento che i dipendenti infedeli ricevono da una simili situazione di favore; senza che occorra accertare se il dirigente dell’ufficio avesse o meno potere il potere di impedire la consumazione del reato”.
Con sentenza del 1° dicembre 2010 la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza pronunziata dal locale Tribunale con la quale … era stato condannato alla pena di anni uno di reclusione ed € 300,00 di multa per il reato di truffa aggravata ai danni del Comune di Milano. In particolare, all’imputato veniva addebitato di aver consentito, nella sua qualità di direttore del settore “relazioni esterne” del Comune di Milano, che alcune dipendenti con abitualità attestassero falsamente la loro presenza in ufficio.
Contro la sentenza della Corte territoriale, il … propone ricorso per cassazione, allegando due motivi.
Col primo motivo, deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui afferma che egli era consapevole della truffa perpetrata dalle dipendenti. Osserva al riguardo che l’introduzione del sistema di controllo computerizzato delle presenze tramite l’impiego di un tesserino magnetico di identificazione personale (ed. badge) costituiva una contromisura adeguata contro gli assenteismi e, di conseguenza, egli non poteva avere nessuna ragione per sospettare che, tutto ciò nonostante, alcune dipendenti avevano architettato un modo per eludere il controllo. Aggiunge che, comunque, non rientrava fra le sue mansioni di controllare l’effettiva presenza del personale, compito invece spettante al responsabile del personale dott. … e che quest’ultimo, sottoscrivendo i fogli di presenza, in sostanza lo rassicurava circa l’inesistenza di eventuali regolarità.
Col secondo motivo, il … si duole del vizio di motivazione anche in ordine alla sussistenza di un nesso di causalità fra la condotta omissiva addebitatagli e l’evento dannoso. Precisa, a tal proposito, che – a tutto voler concedere – null’altro avrebbe potuto fare se non avviare un procedimento disciplinare, cosa in sé inidonea a scongiurare la reiterazione della condotta criminosa.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
I vizi di motivazione dedotti da … infatti, muovono tutti dal presupposto che l’imputato sia stato chiamato a rispondere del reato, in concorso con le dipendenti assenteiste, come se la sua responsabilità penale derivasse dal fatto di non aver impedito l’evento ai sensi dell’art. 40 c.p. Solo così, infatti, si spiega il rilievo dato dalla difesa alla ripartizione dei compiti e delle mansioni all’interno dell’ufficio, alla valenza “scriminante” che avrebbe dovuto avere l’introduzione del badge, alle attestazioni contenute nei fogli di presenza, alle iniziative disciplinari che l’imputato – al più -avrebbe potuto avviare se avesse scoperto la truffa.
Tali elementi, invece, non sono stati tenuti in considerazione decisiva dal giudice di merito in quanto la Corte d’appello ha ritenuto, piuttosto, che la partecipazione del ai fatti commessi dalle dipendenti si sia concretizzata in un comportamento sostanzialmente commissivo.
Infatti, così la Corte conclude, in esito alla disanima di vari elementi di fatto: «si è ritenuto, proprio attraverso le testimonianze acquisite, che le stesse (le dipendenti assenteiste) abbiano esercitato all’interno del settore un potere intimidatorio nei confronti dei sopra citati dipendenti del Comune di Milano, potere nascente da un troppo spesso evidenziato rapporto preferenziale da loro goduto nei confronti del direttore generale … rapporto che oltre a mantenerle in una posizione in una posizione privilegiata, le rendeva capaci di ottenere il silenzio di tutti gli altri dipendenti pena “la delazione al capo”» (pag. 4).
Non sussiste, quindi, il lamentato vizio di motivazione, dal momento che gli elementi che il … assume siano stati trascurati sono manifestamente ininfluenti nella ricostruzione dei fatti offerta dai giudici di merito. Ogni altra censura al riguardo è in punto di fatto ed inammissibile nel giudizio di legittimità.
Si deve pervenire a pari conclusioni anche per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, non soltanto se inteso nei termini in cui è stato prospettato di vizio di motivazione, ma anche se diversamente qualificato come errore nell’applicazione della legge penale. Il nesso di causalità la cui assenza è denunciata col ricorso, infatti, attiene pur sempre alla struttura del concorso ex art. 40, secondo comma, c.p.; in questa logica si spiega perché il … si duole del fatto che la Corte d’appello avrebbe omesso di trascurare che egli non aveva il potere di impedire l’evento, potendo al più esercitare l’azione disciplinare nei confronti delle dipendenti assenteiste. Ma il fatto ritenuto dai giudici di merito è invece diverso e si sostanzia – come già detto – in un concorso commissivo realizzatosi mediante la manifestazione di una chiara apparenza, anche agli occhi degli altri dipendenti, di un ingiustificato rapporto di “protezione” che finiva col creare, a favore delle corree, la sostanziale impunità dalle loro condotte illecite, sottraendole di fatto al “controllo sociale” ed al rischio di delazione da parte dei colleghi che si fossero avveduti delle ripetute violazioni da loro commesse nell’osservanza dell’orario di lavoro. La censura non è quindi pertinente.
Ed infatti concorre nel reato con condotta commissiva – anziché mediante omissione ai sensi dell’art. 40, secondo comma, c.p. – il dirigente di un ufficio pubblico che non soltanto non impedisce che alcuni dipendenti pongano in essere reiterate violazioni nell’osservanza dell’orario di lavoro, aggirando in modo fraudolento il sistema computerizzato di controllo delle presenze, ma favorisca intenzionalmente tale comportamento creando segni esteriori di un atteggiamento di personale favore nei confronti dei correi, in modo tale da creare intorno ad essi un’aurea di intangibilità, disincentivare gli altri dipendenti dal presentare esposti o segnalazioni al riguardo e così affievolire, in ultima analisi, il c.d. “controllo sociale”. Pertanto tale condotta ha, in sé, valenza agevolatrice nella commissione del reato, anche solo per il sostegno morale e l’incoraggiamento che i dipendenti infedeli ricevono da una simile situazione di favore, senza che occorra quindi accertare, sul piano del rapporto di causalità, se il dirigente dell’ufficio avesse il potere di impedire la consumazione del reato o se avesse a tal fine contemporaneamente assunto iniziative di portata generale (quale l’introduzione del controllo computerizzato delle presenze), iniziative comunque rivelatesi inefficaci,
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con condanna dell’imputato ai pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l’imputato al pagamento delle spese processuali.
http://www.dplmodena.it/cassazione/sentenze/vigilanza/35344-11.html
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE – SENTENZA 3 maggio 2011, n.17096
MASSIMA
1. In tema di truffa in danno dell’ente pubblico, la mancata timbratura del cartellino da parte di un dipendente è un espediente idoneo ad evitare che l’azienda ospedaliera, attraverso i sistemi automatizzati di calcolo delle retribuzioni, si accorga delle anomalie e continui a pagare al soggetto l’intera retribuzione.
2. L’art. 340 c.p. tutela non solo l’effettivo funzionamento di un servizio pubblico, ma anche l’ordinato svolgimento di esso, sicché, ai fini della sussistenza dell’elemento oggettivo non ha rilievo che la interruzione sia stata solo temporanea o che si sia trattato di un mero turbamento nel regolare svolgimento del servizio stesso. (Nella specie, la Cassazione ha confermato la condanna del medico che abbandonava il reparto prima che finisse il proprio turno, senza timbrare il cartellino marca tempo, non rilevando l’eventuale disponibilità da parte dei colleghi di supplire le assenze e i ritardi) |
ASUS DECISUS
Il Tribunale di Udine condannava D.G. alla pena di un anno di reclusione ed Euro 500,00 di multa con i doppi benefici di legge, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, da liquidarsi in separata sede, per i reati di truffa continuata ai danni di ente pubblico e di interruzione di pubblico servizio, concesse le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulla contestata aggravante. L’imputato, tramite difensore, ricorreva per cassazione. |
ANNOTAZIONE
Nella sentenza in epigrafe, gli ermellini confermano la condanna del medico che, avendo simulato il rispetto dell’orario di lavoro allo scopo di ottenere il pagamento dell’intera retribuzione, ometteva di timbrare il cartellino nel corso della pausa pranzo. Ciò, a detta dei giudici di legittimità, rappresenta un espediente idoneo ad evitare che l’azienda ospedaliera, attraverso i sistemi automatizzati di calcolo delle retribuzioni, si accorga delle anomalie e continui a pagare al soggetto l’intera retribuzione, integrando pertanto il reato di truffa in danno dell’ente pubblico. |
TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE – SENTENZA 3 maggio 2011, n.17096 – Pres. Sirena – est. Nuzzo
Svolgimento del processo D..G., tramite difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Trieste,in data 5.5.2010,confermativa della sentenza 17.5.08 del Tribunale di Udine che lo aveva condannato alla pena di un anno di reclusione ed Euro 500,00 di multa con i doppi benefici di legge, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita,da liquidarsi in separata sede, per i reati di truffa continuata ai danni di ente pubblico e di interruzione di pubblico servizio, concesse le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulla contestata aggravante. Il ricorrente deduceva: 1) manifesta illogicità della motivazione in ordine agli artifici e raggiri ed al danno del reato di truffa (perché il G., in qualità di dirigente medico in servizio presso il reparto oncologia dell’Azienda Ospedaliera (omissis), abbandonava abitualmente il reparto prima della fine del proprio turno di servizio senza effettuare, in uscita, la timbratura del cartellino marca tempo … facendo apparire falsamente di aver prestato la propria opera per un numero di ore giornaliere superiore a quello ordinario); i giudici di appello avevano ritenuto che la timbratura del cartellino avesse costituito un espediente per simulare il rispetto dell’orario di lavoro allo scopo di ottenere indebitamente il pagamento dell’intera retribuzione; in realtà l’intera retribuzione sarebbe/comunque, spettata al G. per aver lavorato 38 ore settimanali, pari al numero di ore minimo secondo il contratto collettivo, a prescindere dal rispetto di un orario continuato o spezzato per l’assenza durante la pausa pranzo; ne conseguiva l’assenza del danno, avendo fra l’altro, il G. compensato l’assenza in pausa pranzo con la presenza pomeridiana, come risultava dagli atti processuali; 2) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 640 c.p. in relazione al requisito degli artifici e raggiri e del danno della persona offesa; La Corte territoriale era incorsa in errore di diritto, avendo qualificato come artificio o raggiro “una condotta neutra” da cui non era derivata alcun danno per la persona offesa in quanto il G. aveva titolo per ottenere l’intera retribuzione per aver espletato il minimo di ore previste dal contratto collettivo,senza che rilevasse l’aver osservato l’ordine di servizio relativo all’orario continuato; 3) contraddittorietà della motivazione in relazione alla sussistenza della interruzione di pubblico servizio ex art. 340 c.p.,avendo la Corte d’Appello fatto riferimento ad elementi che non trovavano conferma negli atti processuali da cui non emergeva un apprezzabile turbamento del servizio; incorrendo in errore di diritto, i giudici di appello avevano qualificato come interruzione di pubblico servizio i ritardi dell’imputato e gli allontanamenti per la pausa pranzo,nonostante che da tali condotte non fosse derivato un turbamento non irrilevante del servizio. Con memoria difensiva, in data 17.2.2011, la parte civile, Azienda Ospedaliera (omissis), di Udine, in persona del direttore generale, contestava i motivi di ricorso sulla base della motivazione della sentenza impugnata e chiedeva dichiararsi l’inammissibilità del ricorso. Motivi della decisione Il ricorso è infondato. Sotto il profilo apparente del vizio di motivazione, in realtà, il ricorrente propone censure di merito, prospettando una valutazione delle prove e dei fatti, diversa da quella effettuata dai giudici di merito e non consentita in sede di legittimità in quanto le argomentazioni della Corte territoriale, poste a fondamento della decisione, sono esenti dal vizio di manifesta illogicità e sono compatibili con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. I giudici di appello hanno dato conto, in particolare, sulla base della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di prime cure, non contestati nella loro materialità, come affermato nella sentenza impugnata(“l’imputato non ha contestato di essersi assentato abitualmente dal lavoro, nell’orario di pranzo, senza timbrare il cartellino in uscita e al rientro”) della sussistenza degli elementi costitutivi del reato di truffa continuata in danno di ente pubblico. In particolare, i giudici di merito hanno evidenziato che il G. non ha provato di aver lavorato oltre l’orario stabilito e per un numero di ore esattamente pari a quelle in cui si è indebitamente assentato senza timbrare il cartellino; peraltro, se pure i diretti superiori ed i colleghi del ricorrente erano a conoscenza del fatto che egli usciva dall’ospedale per la pausa- pranzo, non nascondendo il fatto di non timbrare il cartellino in uscita e al rientro, non poteva escludersi la sussistenza degli artici e raggiri, oltreché dell’ingiusto profitto con altrui danno, tenuto conto che “l’ente pubblico è spersonalizzato, che la frode era diretta contro l’ente pubblico e che il pagamento delle retribuzioni avveniva in forma automatica, da parte della direzione amministrativa, con la lettura dei cartellini orari da parte di un elaboratore”. Ne consegue che, correttamente, la mancata timbratura del cartellino è stato ritenuto un espediente idoneo ad evitare che l’azienda ospedaliera, attraverso i sistemi automatizzati di calcolo delle retribuzioni, non si accorgesse delle anomalia e continuasse a pagare al G. l’intera retribuzione, come in concreto avvenuto. La configurabilità del reato di cui all’art. 340 c.p. è stata pure adeguatamente motivata, in conformità alla giurisprudenza in materia della S.C., avuto riguardo alla sistematicità dei ritardi dell’imputato all’inizio delle visite mediche ed all’assenza alle riunioni del reparto. Occorre poi ribadire che l’eventuale disponibilità da parte dei colleghi del G. a supplire alle assenze e ritardi di quest’ultimo non rileva ai fini della condotta penalmente sanzionata; il turbamento non irrilevante del servizio è stato, peraltro, contestato con riferimento alla interruzione del servizio medico del reparto ospedaliero, “per completa scopertura del servizio di guardia attiva, non essendovi, in tal casi, altri medici presenti presso la struttura”. Va, comunque, rammentato che, la S.C. ha ravvisato la ratio del reato di cui all’art. 340 c.p. nella tutela non solo dell’effettivo funzionamento di un servizio pubblico, ma anche nell’ordinato svolgimento di esso, sicché, ai fini della sussistenza dell’elemento oggettivo non ha rilievo che la interruzione sia stata solo temporanea o che si sia trattato di un mero turbamento nel regolare svolgimento del servizio stesso (Cass. n. 44845/2007; n. n. 24068/2001). Il ricorso, alla stregua di quanto osservato, va rigettato. Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile costituita, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile,Azienda Ospedaliera Universitaria, (omissis), liquidate in complessivi Euro 3.500,00 oltre spese generali, IVA e CPA. |
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CORTE DEI CONTI – SEZ. GIUR. CENTRALE; SENT. N. 682 DEL 15.12.2010
FATTO Con la sentenza evidenziata in epigrafe, la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Umbria ha condannato la sig.ra X. X., infermiera coordinatrice della sala operatoria della struttura complessa di chirurgia generale e di urgenza dell’azienda ospedaliera S. Maria della X. di X., al pagamento in favore dell’Erario della somma di euro 4.169,81 oltre rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giudizio, ritenendola responsabile di illecite assenze dal servizio nel periodo aprile/ottobre 2006, invece regolarmente retribuite. In particolare la sentenza impugnata ha sostenuto che risulterebbero verificati tutti i presupposti che connotano la responsabilità amministrativa patrimoniale, costituiti dal rapporto di servizio intercorrente tra convenuta e danneggiata, dal pregiudizio sofferto da quest’ultima in termini di mancata soddisfazione delle prestazioni esigibili a fronte della retribuzione erogata, dall’antidoverosità della condotta tenuta dalla dipendente, dal nesso causale tra la condotta stessa ed il danno rilevato, nonché dall’elemento psicologico nel grado richiesto, definibile in fattispecie quale dolo (contrattuale). In sostanza, la X., secondo il Giudice di prima istanza, con piena coscienza e volontà, s’è sottratta al dovere di esser presente nella struttura sanitaria dove svolgeva la propria attività alle dipendenze dell’azienda ospedaliera “S. Maria della X.” di X., benché avesse fatto constare tale propria presenza nel luogo di lavoro, non avendo, dunque, reso – per i lassi temporali considerati – la prestazione richiesta, pur senza alcuna corrispettiva decurtazione della retribuzione. La sentenza de qua è stata impugnata dall’interessata con atto depositato in data 27 marzo 2009, con il quale viene innanzitutto eccepita la nullità e/o l’inesistenza della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio, con violazione e falsa ed erronea applicazione degli artt. 138, 139 e 140 c.p.c., motivo per cui la sentenza impugnata sarebbe stata emessa senza che l’appellante avesse la possibilità di difendersi in giudizio. Inoltre, pur ritenendo assorbente la precedente eccezione , l’appellante ha eccepito in via pregiudiziale la necessità di sospendere il giudizio in attesa dell’accertamento dei fatti oggetto di contestazione in sede penale. Secondo l’appellante, infatti, allorquando, come nella fattispecie, il fatto da accertarsi in altro giudizio si pone come antecedente logico/giuridico avente carattere pregiudiziale per la definizione del giudizio contabile, tale ultimo va sospeso. L’atto di appello sostiene, inoltre, l’inesistenza del danno e l’errato computo delle assenze dell’appellante, stante che mancherebbe la dimostrazione che la sig.ra X. abbia lavorato, su base settimanale e non giornaliera, meno ore di quelle contrattualmente previste e che tali ore di lavoro le siano state effettivamente corrisposte. A tale proposito viene anche contestata l’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche e dei tabulati telefonici quale fonte di prova delle ore di assenza contestate. L’appellante si sofferma inoltre sulla circostanza che all’epoca dei fatti era tenuta per ragioni di servizio a recarsi presso la diversa struttura ospedaliera di “M.”, fatto questo che le impediva di timbrare il cartellino presso l’Ospedale “S.” dove prestava principalmente la propria attività lavorativa
Per tali ragioni l’appellante chiede conclusivamente, in via pregiudiziale, la declaratoria di nullità della notificazione dell’atto di citazione con conseguente rimessione della causa, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., al Giudice di primo grado; in via preliminare, la sospensione del giudizio di appello in attesa dell’accertamento dei fatti oggetto di contestazione in sede penale; in via principale e nel merito l’assoluzione della sig.ra X. da qualunque addebito; in via subordinata la rideterminazione del danno nonché l’applicazione del potere riduttivo. La Procura Generale presso questa Corte ha depositato la proprie conclusioni in data 20 ottobre 2010 chiedendo la declaratoria di infondatezza nel merito dell’appello proposto. Secondo il Requirente, infatti, la notifica dell’atto di citazione sarebbe corretta, poiché effettuata presso la residenza anagrafica dell’appellante, dove peraltro sono state notificate l’invito a dedurre e la sentenza, entrambe regolarmente ricevute. Da respingere sarebbe anche la formulata richiesta di sospensione, stante l’autonomia delle due diverse fattispecie processuali e l’assenza di ogni rapporto di pregiudizialità fra le due. Nel merito, poi, la Procura Generale sostiene la sussistenza di tutti gli elementi propri della responsabilità, ritenuti sufficientemente provati ed avvalorati da una serie di comportamenti che altrimenti rimarrebbero inspiegabili ove la vicenda si fosse svolta alla luce di canoni di normalità e legittimità. Da ultimo, la Procura Generale, sulla scorta delle caratteristiche comportamentali dell’appellante, chiede che non venga fatto uso del potere riduttivo. In occasione dell’odierna udienza, le parti hanno sostanzialmente ripreso e confermato le conclusioni scritte. Ritenuto in DIRITTO La vicenda che riguarda sig.ra X. X., infermiera coordinatrice della sala operatoria della struttura complessa di chirurgia generale e di urgenza dell’azienda ospedaliera S. Maria della X. di X., e le contestate assenze dal servizio passa necessariamente, in via preliminare, attraverso l’esame delle eccezioni poste dalla difesa dell’appellante. In primo luogo, viene eccepita la nullità e/o l’inesistenza della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio e ciò perché, nonostante l’atto di citazione sia stato notificato presso la residenza ufficiale dell’appellante (luogo dove era stato notificato l’invito a dedurre, regolarmente ricevuto, e dove, successivamente, sarebbe stata notificata la sentenza, anch’essa regolarmente ricevuta) risulterebbe dagli atti che la medesima abbia eletto domicilio, ai fini delle notifiche, presso i difensori in primo grado della sig.ra X., con la conseguenza di non aver potuto predisporre le proprie difese nel corso del giudizio di prima istanza. Ora, è pur vero che in data 5 ottobre 2007 la sig.ra X. comunicava alla Procura regionale Umbria la nomina dei propri difensori e la relativa elezione di domicilio presso gli stessi “ai fini delle notifiche”, ma, in disparte l’irritualità delle nomina dei patrocinanti, effettuata al di fuori delle previsioni di legge, la cennata elezione di domicilio risulta effettuata nell’ambito del procedimento di invito a dedurre e solo limitatamente a questo. Infatti, la nota del 5 ottobre reca come riferimento gli estremi di Procura V2006/01074/CHI e V2006/01114/CHI, attinenti alla procedura di invito e la stessa appellante scrive nella nota che la nomina dei difensori e l’elezione di domicilio viene effettuata “a seguito degli inviti a produrre deduzioni nei procedimenti sopra indicati”. E’ evidente quindi come il contenuto della nota sia rivolto esclusivamente all’ambito dell’invito a dedurre, il quale, come è noto, integra, in seno al procedimento contabile, una fase peculiarmente preprocessuale a contenuto istruttorio, che può risolversi nell’atto di citazione, provvedimento che, solo, costituisce il vero e proprio rapporto processuale Pertanto, avendo l’appellante eletto domicilio presso i propri difensori, solo per la fase preprocessuale dell’invito, se ne deduce che, in assenza di ogni altra indicazione, l’atto di citazione è stato correttamente notificato presso la residenza ufficiale dell’appellante. L’eccezione va quindi respinta. Parimenti va respinta l’eccezione di sospensione del processo contabile in attesa delle conclusioni del relativo procedimento penale. In assenza di qualsivoglia rapporto di pregiudizialità fra i due procedimenti, la delibazione del Giudice di prime cure, debitamente motivata, in ordine all’opportunità di non attendere le conclusioni penali appare a questo Collegio ineccepibile e conforme alle regole processuali. L’eccezione quindi non può essere accolta. Quanto al merito della vicenda, va osservato quanto segue. Gli addebiti mossi alla sig.ra X. riguardano sostanzialmente presunte violazioni di obblighi di servizio inerenti il rispetto dell’orario, la non corrispondenza delle presenze in relazione alle timbrature, i compensi percepiti per prestazioni non rese. L’appellante, giusta dichiarazione resa in data 10 maggio 2007 dal Dirigente dell’Ufficio giuridico della Direzione del personale dell’Azienda Ospedaliera di X., era tenuta al rispetto di un orario lavorativo giornaliero di 7 ore e 12 minuti, per un turno di servizio articolato su 5 giorni alla settimana. Ancora più precisamente sull’orario di servizio si esprime la dr.ssa Y. Y., responsabile del SIOTER (Servizio infermieristico ostetrico tecnico e riabilitativo) e dalla quale dipendono i capi coordinatori delle varie professionalità che fanno capo al servizio, tra i quali infermieri e tecnici, in occasione dell’interrogatorio in data 3 novembre 2006 innanzi al Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di X.. La Y. dichiara che la X. “è fra quei dipendenti autorizzati all’orario libero su cinque giorni, ossia che, fermo restando il limite di 36 ore settimanali, può prendere servizio sino alle ore 9.00 e svolgere successivamente le ore di lavoro giornaliere. Il sistema informatico per chi ha l’orario libero recepisce qualunque orario di entrata e di uscita durante il giorno anche se l’ingresso oltre le ore 9.00 è comunque irregolare”. Sostanzialmente quindi da quanto precede si evince che l’appellante era tenuta ad un orario giornaliero “flessibile” che in ogni caso non poteva iniziare oltre le ore 9.00 e che prevedeva lo svolgimento del servizio per il numero di ore prestabilito. Di conseguenza, appare del tutto arbitrario sussumere, come fa la difesa dell’appellante, il concetto di “orario libero” quale sinonimo di totale assenza di vincoli giornalieri nell’entrata e nell’uscita dal complesso ospedaliero. Si pensi, ad esempio, solo cosa comporterebbe tale concetto in relazione ai turni di reperibilità: se orario libero corrispondesse ad orario arbitrario si cadrebbe inevitabilmente in un caos organizzativo che, in specie per la professione sanitaria, produrrebbe effetti disastrosi. Ma, accertato quanto sopra, l’aspetto ancor più dirimente è integrato dal fatto, ampiamente provato, che l’appellante ha scientemente agito in totale dispregio dei propri obblighi, dei quali la stessa appellante era comunque ben conscia, stante le continue preoccupazioni di regolarizzare, in ogni modo, le proprie presenze con adeguate timbrature del cartellino. E che questo sia evidente è agli atti soprattutto dell’istruttoria penale della quale, come da consolidata giurisprudenza di questa Corte, il Giudice di primo grado così come questo Giudice di appello può ampiamente tenere conto ai fini della formazione del proprio libero convincimento. Senza quindi entrare nella dinamica della utilizzabilità delle fonti probatorie, quali le intercettazioni telefoniche o le videoriprese, la cui valenza e legittimità è stata valutata sotto il profilo penale ed in relazione esclusivamente alla tipologia di reati commessi e quindi al di fuori delle dinamiche e della tipicità del presente procedimento per responsabilità amministrativo/contabile, questo Giudice ritiene che il comportamento antidoveroso dell’appellante sia ampiamente dimostrato dai dati incrociati che varie fonti forniscono. La dr.ssa Y., nella circostanza della redazione del predetto verbale di sommarie informazioni del 3 novembre 2006, dichiara “quando il dipendente omette di registrarsi mediante il badge deve compilare il cosiddetto modello unico nel quale indica la data e l’orario della mancata timbratura o dell’assenza [..] Prendo atto che il modello unico di X. X. risulta redatto per più mancate timbrature in giorni diversi e non posso che evidenziare la non correttezza dell’operato”. Nel rapporto redatto dal Comando Carabinieri per la tutela della Salute – NAS di X. del 3 agosto 2006 vengono riportati poi gli estremi di accertamento in base ai quali il Direttore della Direzione medico ospedaliera dell’Ospedale Santa Maria della X. di X. dr. Z. Z., la responsabile del SIOTER dr.ssa Y. Y., l’infermiere addetto alla Struttura complessa chirurgia generale d’urgenza e toracica dell’A.O. di X. sig. W. S., l’infermiera addetta alla medesima struttura sig.ra T. G., altro infermiere addetto alla medesima struttura sig. V. C., l’operatore socio sanitario addetto alla stessa struttura sig.ra V. P., il medico anestesista presso l’Istituto di Anestesia e Rianimazione dr. U. R., testimoniano tutti, ciascuno per il proprio ambito di competenza, che l’odierna appellante non ha effettuato per diverse giornate le prescritte timbrature, che più volte non si è presentata in servizio, che, pur essendo in reperibilità, richiesta in servizio non si è presentata, che spesso è stata notata arrivare in reparto in ritardo od allontanarsene in orario di servizio. Di tutto ciò sono disponibili in atti i relativi verbali all’uopo predisposti dagli appartenenti all’Arma dei Carabinieri. Dalla documentazione predetta emerge ampiamente e con chiarezza e senza ricorrere ad ulteriore attività istruttoria ritenuta dalla difesa dell’appellante non ammissibile la condotta della sig.ra X., non solo antidoverosa ma in alcuni casi inqualificabile, atteso che dalle testimonianze rese la stessa si è resa irreperibile quando necessaria era la relativa presenza a fini di immediata assistenza sanitaria. E quand’anche si ritenesse che non si sia raggiunta la prova piena nella dimostrazione del comportamento doloso della odierna appellante, va ricordato che in ogni caso è applicabile il principio di cui all’art. 192, comma secondo, c.p.p., in base al quale l’esistenza di un fatto può essere desunta anche da indizi, purchè siano gravi, precisi e concordanti. In particolare, gli indizi possono dirsi concordanti quando consentono di ricostruire il fatto, la vicenda storica oggetto delle indagini, in senso univoco e comunque tale da escludere altre ragionevoli ipotesi. E la fattispecie odierna si attaglia esattamente a tale generale assunto, senza voler considerare e volersi soffermare su ipotesi testimoniate di timbrature false rese da altri soggetti, di sottoscrizioni altrettanto false ed atteggiamenti genericamente fraudolenti. Da quanto precede discende evidente anche il danno recato all’Amministrazione sanitaria che, correttamente, è stato quantificato dal Giudice di prima istanza nelle ore di servizio retribuito e non prestato. Anche in questo caso, infatti, tenuto conto della già evidenziata necessità di far riferimento ad un orario giornaliero prestabilito e comunque a precisi doveri di presenza in servizio, l’impostazione difensiva di voler considerare comunque il complesso del servizio prestato su base settimanale o mensile non può trovare ingresso. In ultima analisi questo Giudice non può esimersi dall’affermare e dal ricordare che la gestione e l’organizzazione di un ufficio e di un servizio pubblico non possono essere considerati alla stregua di un fatto privato ed essere di conseguenza trattati come tali. Ne consegue anche che le descritte caratteristiche comportamentali dell’appellante impediscono a questo Giudice il ricorso all’uso del potere riduttivo.
Per tutto quanto precede, quindi, questo Collegio ritiene che la decisione del Giudice di prima istanza vada immune da censure e che, conseguentemente, l’appello non possa essere accolto. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte dei conti, Sezione Prima Giurisdizionale Centrale, definitivamente pronunciando, rigetta l’appello proposto avverso la sentenza n. 192/2008 della Sezione Giurisdizionale per la Regione Umbria iscritto al n. 34703 del registro di Segreteria, promosso ad istanza della sig.ra X. X.. Condanna la sig.ra X. al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio, che si liquidano in euro …102,34 (Centodue/34). Manda alla segreteria per gli adempimenti di rito. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 19 novembre 2010. L’ESTENSORE IL PRESIDENTE F.to Cons. Mauro OREFICE F.to Pres.Giovanni PISCITELLI Depositato il 15/12/2010 Il Dirigente F.to Massimo BIAGI
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CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 26 novembre 2014 n. 25159
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 19 novembre 2008, la società Poste italiane convenne in giudizio avanti la sezione lavoro della Corte d’Appello di Milano L.L.P., sua dipendente, proponendo appello avverso la sentenza resa tra le parti dal giudice del lavoro del Tribunale di Milano n. 3790/2007.
Il primo giudice aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice in data 24 marzo 2006, ritenendo che l’assenza contestatale e relativa ad un periodo di ferie che, secondo la datrice di lavoro, la stessa si sarebbe unilateralmente attribuita, non potesse essere ritenuta ingiustificata, in quanto, a precisa richiesta della lavoratrice, la società datrice di lavoro,pur avendo concesso solo in parte il periodo richiesto, tuttavia non aveva neppure espressamente rigettato la domanda per il periodo residuo; inoltre in relazione al conteggio delle ferie spettanti alla lavoratrice, relative anche all’anno precedente, si era verificata una situazione di confusione ed incertezza dovuta al fatto che in precedenza la L.P. era stata licenziata e quindi reintegrata, cosicché le ferie relative alla pregressa fase del rapporto di lavoro, secondo l’azienda, le sarebbero state già liquidate all’atto dei licenziamento e non le sarebbero più spettate in natura. La società Poste riconosceva peraltro che le buste-paga consegnate alla lavoratrice fino al novembre precedente la richiesta di ferie, riportavano in realtà un consistente numero di residui giorni di ferie da fruire (tali da giustificare almeno in astratto la richiesta della lavoratrice) indicati per errore, come successivamente chiarito dall’azienda. Il Tribunale aveva quindi ritenuto che, date le circostanze, occorresse fare riferimento solo alla situazione soggettiva delle parti e che, sotto tale profilo, il comportamento della lavoratrice non potesse ritenersi in malafede, in quanto alla stessa non erano mai state espressamente negate le ferie nel periodo richiesto; il giudice aveva osservato che la posizione dell’azienda sul punto era stata ambigua anche successivamente: infatti i superiori le avevano chiesto informazioni circa la sua posizione in quel periodo, senza neppure contestarle immediatamente l’assenza.
Conclusivamente il giudice aveva accolto l’impugnativa e reintegrato la lavoratrice nel suo posto di lavoro. Nell’atto di gravame, Poste Italiane ribadiva che, alla data della richiesta, la lavoratrice non aveva diritto alle ferie richieste e che, comunque, le stesse non le erano state concesse in modo integrale, cosicché essa si sarebbe dovuta attenere al provvedimento datoriale, non potendo attribuirsele unilateralmente.
Costituitasi la lavoratrice, la Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 6 maggio 2011, accoglieva il gravame, rigettando l’originaria domanda proposta dalla L.P., che ora propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
Resiste la società Poste Italiane con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.-Con il primo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n.5 c.p.c.).
Lamenta che i giudici di appello pervennero erroneamente a conclusioni opposte a quelle del Tribunale, circa la spettanza o meno delle ferie alla lavoratrice e l’irrilevanza dell’obiettiva confusione circa il numero di giorni di ferie spettanti alla lavoratrice.
2.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 c.c. e 52 del c.c.n.l. di categoria (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) per avere mal valutato la gravità del comportamento e la proporzionalità della relativa sanzione adottata, anche alla luce della contrattazione collettiva che pone in risalto l’intenzionalità del comportamento addebitato. 3.-Con il terzo motivo la lavoratrice denuncia una omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n.5 c.p.c.), inerente la sua buona fede a fronte dell’obiettiva incertezza circa i giorni di ferie spettantile.
4.- I motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili (laddove sottopongono a questa Corte una nuova valutazione delle circostanze di fatto circa gli atti e comportamenti adottati dalle parti prima del godimento delle ferie, ex plurimis Cass. n.10833\10; n.8718/2005; n.15693/2004; n.2357/2004), e per il resto infondati.
Ed invero, premesso che ben può il giudice di appello pervenire ad una valutazione delle circostanze di causa diversa da quella del primo giudice, come correttamente accertato e rilevato dal giudice d’appello nella fattispecie,è pacifica la circostanza che a fronte della richiesta della lavoratrice di fruire dei seguenti periodi di-ferie: dal 31.12.05 al 7.1.06 e dal 14.1.06 al 4.2.06, la risposta della società era stata assolutamente chiara ed inequivocabile: “le vengono autorizzate le seguenti giornate di ferie: dal 31.12.05 al 7.1.06, giorni 6″. Sicché, conclude logicamente la Corte di merito, per quanto potesse risultare incerto l’effettivo ammontare delle ferie spettanti alla lavoratrice (sulla scorta delle buste paga e del precedente licenziamento con successiva reintegra nel posto di lavoro), quel che risultava certo è che l’azienda autorizzò unicamente il periodo di ferie sopra riportato, con la conseguenza che le ulteriori pretese ferie di fatto godute dalla lavoratrice, erano frutto di una illegittima autodeterminazione e collocamento unilaterale in ferie da parte della stessa, in contrasto con l’art. 2109 c.c. (e conseguentemente, inoltre, come incontestata mente accertato dalla Corte di merito, con l’art. 53 del c.c.n.l. di categoria che sanziona col licenziamento le assenze ingiustificate per oltre dieci giorni) ed il consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinario in materia, secondo cui il lavoratore non può scegliere arbitrariamente il periodo di godimento delle ferie, trattandosi di evento che va coordinato con le esigenze di un ordinato svolgimento dell’attività dell’impresa e la cui concessione costituisce una prerogativa riconducibile al potere organizzativo del datore di lavoro (Cass. n. 18166\13; Cass. n. 9816\08).
4.- II ricorso deve pertanto rigettarsi.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.100,00 per esborsi, €.4.000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Così deciso alla c.c. del 9 ottobre 2014.
Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2014.
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Il medico ospedaliero non ha diritto di scegliere le ferie contro la volontà della ASL – Cassazione lavoro sentenza n. 12805 del 10 Giugno 2011
Il medico della Asl non può scegliere quando usufruire delle ferie neanche di fronte al comportamento illegiittimo della Asl che si rifiuta di concederle. Il professionista, in sostanza, anche di fronte a una violazione da parte del datore di lavoro, non può agire in autotutela assentandosi quando vuole. La sezione Lavoro della Cassazione con la sentenza 12805/2011 ha affermato il principio di diritto che vieta al medico ospedaliero, di assentarsi dal lavoro arbitrariamente (in via di autotutela) anche nel caso in cui vi sia un comportamento illegittimo della ASL che gli proibisce di usufruire delle ferie.
I giudici di Piazza Cavour legittimità hanno giustificato tale assunto richiamando l’accordo collettivo per i medici di medicina generale, per i quali dei 21 giorni di ferie spettanti, compete al medico la scelta di 11, mentre i restanti 10 si usufruiscono esclusivamente su indicazione dell’azienda sanitaria. Al medico è data facoltà, quindi, di scegliere, ma non può poi prescindere dal preventivo assenso della Asl che ha l’obbligo di garantire la totale funzionalità del servizio in ogni periodo dell’anno.
Corte di Cassazione Sez. Lavoro – Sent. del 10.06.2011, n. 12805 Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. dell’11 dicembre 2001 al Tribunale di Ascoli Piceno (…) medico incaricato del Servizio di Emergenza Sanitaria Territoriale (EST) presso l’Azienda Sanitaria Locale n. 13 di Ascoli Piceno, premesso che nel corso dell’anno 2000 non aveva usufruito di ferie e che erano state respinte due sue richieste avanzate in tal senso nell’anno 2001, chiese che fosse ordinato a parte datoriale di farle godere, entro il 31 dicembre 2001, di 9 giorni di ferie relative all’anno 2001 e di 7 giorni di ferie relative al 2002, nei periodi da lei indicati. Il Tribunale, con decreto inaudita altera parte del 18 dicembre 2001, dichiarò il diritto del ricorrente ad usufruire di 9 giorni di ferie per l’anno 2001. Indi, nella resistenza della convenuta, che, in via riconvenzionale, aveva chiesto la declaratoria di illegittimità del comportamento della controparte, la quale si era posta in ferie dal 23 al 31 dicembre 2001, il Tribunale, con provvedimento del 29 gennaio 2002 revocò il decreto emesso inaudita altera parte e rigettò il ricorso con condanna alle spese (provvedimento poi modificato a seguito di reclamo, con la condanna della ASL alla concessione di sedici giorni di ferie). Con il ricorso di merito dell’11 giugno 2002, il dr. (…) chiedeva la declaratoria del suo diritto ad usufruire dei 21 giorni di ferie da imputare all’anno 2000 e dei 21 da imputare all’anno 2001, la condanna della convenuta alla concessione dei 21 giorni di ferie da imputare all’anno 2000 e dei restanti cinque giorni (detratti quelli già goduti) da imputare al 2001, nonché il risarcimento in via equitativa del danno biologico o esistenziale subito per la mancata fruizione delle ferie negli anni 2000 e 2001 per euro trecentomila. La ASL si opponeva alla domanda e chiedeva la declaratoria di illegittimità del comportamento unilaterale della parte ricorrente di porsi in ferie. Il Tribunale condannò la ASL alla concessione dei giorni di ferie residui per gli anni 2000 e 2001, dichiarò illegittimo il comportamento della ricorrente che si era posta in ferie senza autorizzazione e rigettò ogni altra domanda. Detta sentenza veniva confermata dalla Corte d’appello di Ancona, la quale, premesso che con l’accordo collettivo per i medici convenzionati di cui al DPR_270_2000 si stabiliva che dei 21 giorni di ferie spettanti, se ne dovevano fruire 11 a scelta del medico e i restanti 10 su indicazione dell’azienda, escludeva che spettasse al medico di scegliere liberamente quando godere dei predetti 11 giorni, stante il diritto del datore di contemperare il riposo con le esigenze del servizio e quindi affermava l’illegittimità del comportamento della ricorrente che si era posta in ferie unilateralmente. Indi la Corte adita – pur riconoscendo l’obbligo del datore di garantire la fruizione del riposo e di indicare, ove non possa acconsentire alla scelta del medico, i diversi periodi in cui l’astensione può essere goduta – rilevava che nella specie era legittimo il rifiuto al godimento delle ferie per il periodo richiesto in forza delle esigenze di servizio, non potendo in concreto la ASL soddisfare nello stesso periodo analoga scelta operata da una pluralità di medici. Era invece illegittima la mancata indicazione dei periodi in cui il riposo poteva essere goduto e ciò di fatto aveva impedito che il relativo diritto potesse essere esercitato negli anni 2000 e 2001, senza peraltro che ciò fosse dipeso da eventi di carattere eccezionale, ma solo da perduranti deficienze di organico, a cui la ASL avrebbe dovuto far fronte diversamente. Concludeva quindi la Corte territoriale che, se la violazione dell’obbligo datoriale di garantire la fruizione delle ferie nell’anno di riferimento, può essere astrattamente fonte di obbligazione risarcitoria (escludendo però nella specie la sussistenza di idonee allegazioni sulla esistenza del danno) non autorizza però il medico a scegliere autonomamente il periodo di godimento. I Giudici d’appello escludevano altresì che la condotta del dr. (…) fosse stata legittimata dal provvedimento cautelare emesso dal Tribunale inaudita altera parte, perché questo si era limitato a dichiarare il diritto della ricorrente “ad usufruire di giorni nove di ferie per l’anno 2001″ ed era quindi privo di qualsiasi contenuto precettivo, anche considerando che non era stato impartito l’ordine richiesto che era quello di imporre alla ASL di farle fruire detti giorni entro il 31 dicembre 2001. Avverso detta sentenza, il dr. (…) ricorre con tre motivi. La ASL è rimasta intimata. Motivi della decisione Con il primo motivo si denunzia violazione dell’art. 68 del DPR 270/2000, per avere la Corte territoriale affermato che spetta al datore il potere di contemperare il diritto del lavoratore al riposo feriale con e esigenze di servizio per cui, nella specie, ferma la possibilità di scelta del medico, la ASL poteva opporre esigenze ostative, mentre detta interpretazione, sostiene il ricorrente, sarebbe in contrasto con i principi costituzionali di irrinunciabilità del diritto alle ferie e di tutela della salute. Nello stesso senso sarebbero anche fonti internazionali, come la convenzione OIL n. 132 del 1970, ratificata con legge 157/1981 e comunitarie, come la direttiva CE 93/104 e successive modifiche, nonché l’art. 10 del sopravvenuto decreto legislativo n. 66/2003, ed anche la giurisprudenza comunitaria. Inoltre le ferie, per consentire il reintegro delle energie psico fisiche devono essere godute entro l’anno di riferimento, per cui sarebbe illegittima la sentenza impugnata che ha dichiarato illegittimo il suo comportamento di godere delle ferie dal 23 al 31 dicembre 2011, ancorché avesse lavorato ininterrottamente dal 1999 ed essendo state respinte le sue richieste il 17 maggio e del 18 settembre 2001. A seguire la tesi della Corte territoriale, sostiene il ricorrente, il diritto a ferie potrebbe essere rinviato di anno in anno in presenza di non meglio precisate esigenze di servizio e verrebbe meno il principio, ancorché astrattamente enunciato “dell’equo contemperamento”. Secondo la Corte Costituzionale il sacrificio del diritto a ferie è legittimo solo se le esigenze di servizio assumano carattere eccezionale, mentre nella specie non ricorreva alcuna situazione eccezionale ed imprevedibile, ma solo la cronica carenza di organico. Sarebbe altresì legittimo il comportamento del lavoratore che agisce “in autotutela”, ossia decide unilateralmente di fruirne dopo averle tempestivamente richieste, quando non sussistano valide ragioni ostative. Con il secondo mezzo si denunzia difetto di motivazione, perché la sentenza impugnata aveva, da un lato, affermato in via generale che il diritto al godimento delle ferie dell’anno può essere negato dal datore solo quando ricorrano esigenze eccezionali, dall’altro aveva ritenuto che nella specie il rifiuto della Asur era legittimo per il solo fatto che altri medici avevano chiesto di fruire di ferie nel medesimo periodo, nonostante detta impossibilità fosse dovuta a perdurante carenza di organico. I due motivi, da trattare congiuntamente, non sono fondati. Invero, non è qui in questione la esistenza del diritto irrinunciabile a godere delle ferie maturate nell’anno, come chiaramente prescrive la normativa a cui il ricorrente fa riferimento e neppure la illegittimità del rifiuto della Asur di concedere le ferie richieste, giacché così ha statuito la sentenza impugnata. I Giudici d’appello hanno infatti riconosciuto la illegittimità del comportamento datoriale ed hanno affermato che detta illegittimità era passibile di risarcimento danni, che però hanno negato ( senza censure da parte del ricorrente) perché la richiesta non era supportata da idonee allegazioni. II problema che resta, ed è unico nella sostanza che il ricorrente propone, è invece di decidere se, a fronte di una rituale richiesta di godere delle ferie annuali e di un rifiuto da parte del datore che non sia conforme alla normativa applicabile, il dipendente possa agire “in autotutela”, assentandosi dal luogo di lavoro per usufruirne. Al quesito non può che darsi risposta negativa. Non vi è dubbio infatti che, secondo la disciplina di cui al dpr n. 270 del 2000, accordo collettivo per i medici di medicina generale, dei 21 giorni di ferie complessivi spettanti, competa al medico la scelta di 11, mentre i residui 10 si usufruiscono su indicazione dell’azienda. Al medico compete dunque di “scegliere”, ma non può poi prescindere dal previo consenso della ASL, giacché la norma fa riferimento solo alla “scelta” non alla “decisione”, ed il fatto che ciò debba avvenire compatibilmente con le esigenze aziendali è dimostrato dall’ultima parte della disposizione, laddove si limita in ogni caso l’assenza dal servizio in misura pari ad un totale di ore lavorative pari a tre volte l’impegno orario settimanale. D’altra parte la necessità di un equo contemperamento tra le esigenze dei medici e quelle della ASL, e quindi la illegittimità di ogni forma di iniziativa unilaterale, appare intrinseca al tipo di servizio reso, dal momento che, anche in presenza di un organico completo, sarebbe impossibile la concessione delle ferie maturate annualmente se tutti i medici concentrassero la loro richiesta nel medesimo periodo, pena la completa scopertura di un servizio essenziale come quello della medicina generale. Di qui l’equo contemperamento degli interessi che possono essere divergenti, e che richiede un leale rapporto di coordinamento e collaborazione, per cui la ASL, in primo luogo, per garantire il godimento nell’anno delle ferie maturate, non può trincerarsi dietro esigenze del servizio che siano in realtà dovute a carenze di organico permanenti, ed in ogni caso, qualora opponga un rifiuto alla richiesta, deve indicare il diverso periodo, nell’arco dell’anno, in cui è possibile il godimento del riposo. Il medico, da parte sua, vede sacrificato il suo diritto al godimento delle ferie nell’anno in caso di eventi eccezionali ed imprevedibili ed è tenuto ad armonizzare le sue richieste con quelle dei colleghi per evitare la scopertura del servizio. Conclusivamente la illegittimità del rifiuto datoriale può essere causativo di risarcimento danni, ma non autorizza alla decisione unilaterale di fruizione del riposo. Il primo motivo di ricorso va quindi rigettato. Quanto al secondo motivo sul difetto di motivazione, la Corte territoriale ha in ogni caso ritenuto illegittimo il rifiuto di concessione delle ferie richieste per non avere la ASL indicato il periodo diverso di godimento, ed anche perché detta impossibilità non era dovuta ad eventi eccezionali, ma alla cronica carenza di organico, a cui la ASL medesima avrebbe dovuto comunque far fronte, che ricorrendo ad incarichi temporanei, al fine di garantire la tempestiva fruizione del periodo feriale nell’anno. Stante la riconosciuta illegittimità del comportamento della ASL, il ricorrente non sembra avere ragioni di doglianza, supportate da specifiche allegazioni probatorie. Parimenti infondato è il terzo motivo, in cui si censura la sentenza per violazione degli artt. 700 e 669 cod. proc. civ. non potendo la decisione unilaterale di collocarsi in ferie trovare legittimità nel provvedimento d’urgenza, giacché con esso il Tribunale si è limitato alla seguente statuizione: “dichiara il diritto di (…) ad usufruire di nove giorni di ferie per l’anno 2001″, riconoscendo così il diritto ma senza conferire alcuna autorizzazione ad agire unilateralmente. In definitiva il ricorso va rigettato. Nulla per le spese non avendo la controparte svolto attività difensiva. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Nulla per le spese. Depositata in Cancelleria il 10.06.2011
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Retribuibilità del lavoro straordinario nel pubblico impiego
Con sentenza n. 4745 dello scorso 25 settembre, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello con cui veniva chiesta la condanna della AUSSL resistente al pagamento della retribuzione per il lavoro straordinario che l’appellante ha assunto di aver svolto durante gli anni 1986-1993.
Il giudice amministrativo, recependo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ha affermato che, nell’ambito del pubblico impiego, il diritto del dipendente al compenso per il lavoro straordinario prestato è condizionato alla sussistenza di una formale e preventiva autorizzazione, in quanto “la circostanza che il pubblico dipendente abbia effettuato prestazioni eccedenti l’orario d’obbligo non è da sola sufficiente a radicare il suo diritto alla retribuzione, altrimenti, si determinerebbe l’equiparazione del lavoro straordinario autorizzato con quello per il quale non è intervenuto alcun provvedimento autorizzativo, compensando attività lavorative svolte in via di fatto, ma non rispondenti ad alcuna riconosciuta necessità”.
Tale autorizzazione ha lo scopo di controllare, nel rispetto del principio di buon andamento della p.a., la sussistenza di effettive ragioni di interesse pubblico alla prestazione di risorse finanziarie a tal fine destinate.
Il principio di indispensabilità della previa autorizzazione allo svolgimento del lavoro straordinario subisce eccezione solo nel caso di “improcrastinabili esigenze di servizio” ma a condizione che intervenga, successivamente, un’autorizzazione a sanatoria.
Benché un orientamento ormai risalente abbia ammesso la rilevanza della c.d. autorizzazione implicita laddove si tratti dello svolgimento di un servizio indilazionabile che l’Amministrazione è tenuta ad assicurare e che per ragioni organizzative non possa essere svolto da soggetti diversi da quello che ne pretende il compenso, la sussistenza di tali ragioni deve in ogni caso essere adeguatamente provata in giudizio.
“E’ legittimo – allora – il diniego di compenso del lavoro straordinario che il pubblico dipendente afferma di aver svolto ma che non furono autorizzate dall’Amministrazione né in via preventiva né in via successiva e neppure in sanatoria, né l’autorizzazione può ritenersi implicitamente rilasciata per ragioni di necessità ed urgenza, solo allegate ma non documentate”.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1220 del 2009, proposto da:
Azienda Usl 10 di Firenze e Gestione Liquidatoria della Usl 10/A, rappresentate e difese dall’avv. Luigi Cecchini, con domicilio eletto presso Giulio Rosauer in Roma, Via Umbria 7;
contro
Naspetti Riccardo, rappresentato e difeso dagli avv. Benito Piero Panariti, Gemma Bearzotti, con domicilio eletto presso Benito Piero Panariti in Roma, Via Celimontana, 38;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. TOSCANA – FIRENZE: SEZIONE II n. 02050/2008, resa tra le parti, concernente diniego pagamento prestazioni straordinarie;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 giugno 2015 il Cons. Carlo Deodato e uditi per le parti gli avvocati Cecchini e Bearzotti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.- Con la sentenza impugnata il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, dopo aver respinto l’eccezione di prescrizione formulata dalle Amministrazioni resistenti, aveva accolto il ricorso proposto dal dr. Riccardo Naspetti e, per l’effetto, aveva annullato il diniego, opposto all’interessato dall’Azienda Sanitaria di Firenze con nota in data 19 gennaio 2000, al pagamento delle prestazioni straordinarie svolte nel periodo corrente dal 1° gennaio 1991 al 30 giugno 1998, riconoscendo contestualmente il diritto del ricorrente a percepire dall’Azienda U.S.L. n.10 di Firenze e dalla gestione liquidatoria ex U.S.L. 10/A, per i periodi di rispettiva competenza, il corrispettivo dovutogli per le 2.078,24 ore di straordinario.
Avverso la predetta decisione proponevano appello l’Azienda U.S.L. n.10 di Firenze e la gestione liquidatoria ex U.S.L. 10/A, contestando la correttezza della statuizione reiettiva dell’eccezione di prescrizione svolta in prima istanza e del giudizio di accertamento della debenza del corrispettivo corrispondente alle ore di straordinario reclamate dall’originario ricorrente e domandando la riforma della sentenza impugnata, con conseguente reiezione del ricorso di primo grado.
Resisteva il dr. Naspetti, contestando la fondatezza dell’appello, del quale domandava la reiezione, con conseguente conferma della decisione impugnata.
Con ordinanza n.5891 del 13 novembre 2014 veniva disposta l’acquisizione di informazioni sulla tipologia delle prestazioni svolte in eccedenza rispetto al tetto orario annuo.
Preso atto dell’indisponibilità, da parte delle Amministrazioni appellanti, della documentazione relativa alle informazioni richieste con la predetta ordinanza istruttoria, Il ricorso veniva trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 4 giugno 2015.
2.- L’appello è infondato, alla stregua delle considerazioni che seguono, e va respinto.
3.- Con il primo motivo di appello le Amministrazioni appellanti insistono nel sostenere l’intervenuta prescrizione del credito azionato dal dr. Naspetti.
L’eccezione è infondata e va disattesa.
Se è vero, infatti, che il credito controverso è soggetto alla prescrizione quinquennale, come correttamente dedotto dalle appellanti, è anche vero che il decorso del relativo termine è stato validamente interrotto da idonei atti ricognitivi del corrispondente debito dell’Amministrazione.
Quand’anche, infatti, si intendesse aderire al più rigoroso orientamento, secondo cui il riconoscimento, generico ed equivoco, del debito da parte dell’Amministrazione debitrice non è idoneo ad interrompere, prima della presentazione della domanda giudiziaria, la prescrizione dei crediti vantati dal dipendente, occorrendo a tal fine un atto interruttivo derivante dall’iniziativa del lavoratore creditore, si dovrebbe, nondimeno, rilevare come nel caso de quo la nota del Direttore Sanitario del 29 aprile 1997, n. 28 e la successiva delibera 15 luglio 1996 n. 2565, con le quali era stato comunicato all’interessato il numero di ore eccedenti l’orario di servizio contabilizzate in suo favore, sono state adottate in risposta ad una espressa richiesta del dipendente (creditore), con la conseguenza che alle stesse dev’essere riconosciuta valenza interruttiva della prescrizione.
Con i predetti atti, infatti, l’Amministrazione ha univocamente riconosciuto, in riscontro ad una richiesta dell’interessato chiaramente finalizzata ad ottenere il pagamento delle relative prestazioni, l’esecuzione da parte del Dr Naspetti del numero (contestualmente comunicato) di ore di lavoro eccedenti l’orario di servizio e, contestualmente, la debenza del corrispettivo corrispondente, avendo contabilizzato le predette ore al dichiarato fine del riconoscimento dei riposi compensativi spettanti (che, tuttavia, non sono mai stati goduti dall’interessato), da valersi (per quanto qui rileva) come modalità alternativa alla retribuzione del plus orario.
4.- Con il secondo motivo di appello si contesta, invece, la fondatezza della pretesa creditoria.
Anche tale doglianza dev’essere respinta.
4.1- Lo scrutinio della questione della debenza del corrispettivo reclamato dal dr. Naspetti esige una preliminare ricognizione delle regole alle quali deve obbedire il riconoscimento dello staordinario nel settore sanitario.
I contratti collettivi, nella parte in cui prendono in considerazione le prestazioni di lavoro straordinario per i servizi di guardia medica, ribadiscono il carattere meramente eventuale ed eccezionale del ricorso a detto istituto, con la conseguenza che ogni pretesa retributiva al predetto titolo resta, quindi, condizionata ad un preventivo e motivato atto deliberativo dell’Azienda Sanitaria, che identifichi condizioni e presupposti per il ricorso al lavoro straordinario (che in ogni caso non può costituire fattore ordinario di programmazione del lavoro), sulla base del quale vanno rilasciate le singole autorizzazioni, che costituiscono l’atto tipico e nominato per accedere al compenso aggiuntivo (Cons. St., sez. VI, 3 novembre 2010, n. 7756).
Nel settore sanitario, infatti, ai sensi degli artt. 17, d.P.R. 20 maggio 1987 n. 270 e 80, d.P.R. 28 novembre 1990 n. 384, il lavoro straordinario non può essere utilizzato come fattore ordinario di programmazione, dovendo rispondere ad effettive esigenze di servizio ed essere preventivamente autorizzato (Cons. St., sez. III, 25 settembre 2013, n. 4745), con la conseguenza che l’Azienda Sanitaria non è tenuta a corrispondere la retribuzione per lavoro straordinario laddove difetti la preventiva autorizzazione amministrativa (Cons. St., sez. III, 3 aprile 2013, n. 1864).
Se è vero, peraltro, che il diritto del pubblico dipendente al compenso per il lavoro straordinario esige che le ore di servizio effettivamente prestate oltre il normale orario d’ufficio siano state formalmente autorizzate dal superiore competente, è anche vero che l’autorizzazione può intervenire anche ex post, in sanatoria, in caso di prestazioni di lavoro straordinario espletate per improcrastinabili esigenze di servizio, e che la stessa può intendersi implicitamente contenuta in atti amministrativi ricognitivi di prestazioni obbligatorie ed indefettibili, che il dipendente e l’Amministrazione sono comunque tenuti ad assicurare, in considerazione del carattere indispensabile del servizio sanitario (Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2002, n.1531).
4.2- Orbene, risulta dimostrato che l’Azienda sanitaria appellante si trovasse in una situazione di carenza di personale e, quindi, in una contingenza alla quale non può non riconoscersi una natura di eccezionalità rispetto ad un servizio pubblico necessario come quello sanitario, con la duplice conseguenza che il Dr. Naspetti non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi dal prestare la propria attività medico- professionale, stante l’indefettibilità del relativo servizio, e che la stessa dev’essere, pertanto, retribuita.
Così come resta agevole identificare nella nota e nella successiva delibera sopra menzionate, e, dunque, nel riconoscimento delle ore di lavoro straordinario accumulate dall’appellato, un implicito, ma chiaro, riconoscimento delle prestazioni eccedenti l’orario di servizio svolte dall’interessato e qualificare le stesse come atti di sanatoria ex post, operante anche laddove si dovesse ritenere che le ore di straordinario non fossero state precedute ab origine da una autorizzazione amministrativa espressa.
4.3- Si deve, peraltro, rilevare che le prestazioni per lavoro straordinario del personale del S.S.N. possono essere retribuite con la corresponsione di somme di denaro o mediante recuperi (o riposi) compensativi e che la scelta fra i due sistemi non è del tutto libera, in quanto l’art. 10 del d.P.R. n. 384 del 1990 pone un limite temporale massimo per la fruizione dei recuperi compensativi (un mese dall’effettuazione dello straordinario, compatibilmente con le esigenze di servizio), considerata la “ratio” dell’istituto del riposo compensativo, finalizzato a consentire al lavoratore il pieno recupero psico-fisico delle energie spese per l’effettuazione dello straordinario.
Laddove, invece, come nel caso in esame, intercorra un lungo lasso di tempo rispetto all’esercizio del lavoro straordinario, il dipendente ha diritto a percepire le somme di denaro corrispondenti alle ore di straordinario effettivamente prestate, restando così confermato il diritto del dr. Naspetti all’equivalente monetario dei riposi compensativi spettanti, ma non goduti.
5.- Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata.
6.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna le Amministrazioni appellanti, in solido tra loro, a rifondere all’appellato le spese di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 giugno 2015 con l’intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente Carlo Deodato, Consigliere, Estensore Bruno Rosario Polito, Consigliere Angelica Dell’Utri, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 24/06/2015 IL SEGRETARIO (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
http://www.giurdanella.it/2013/10/08/retribuibilita-del-lavoro-straordinario-nel-pubblico-impiego/
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Cassazione, il reperibile deve sempre recarsi in ospedale per i casi urgenti
I casi di malasanità sono sempre quelli più difficili da raccontare ed è facile comprendere il motivo.
Dal Tribunale di Perugia fino alla Corte di Cassazione per mettere fine ad una triste vicenda che, causa la negligenza medica, ha portato la morte di un minorenne.
I Supremi giudici della sesta sezione penale della Corte di Cassazione hanno considerato una negligenza meritevole di condanna il comportamento del medico chirurgo che si rifiuta di intervenire in un caso di emergenza.
La sentenza n. 12376/2013 ha quindi permesso agli ermellini di poter chiarire alcuni aspetti relativi alla responsabilità medica per mancato intervento in una situazione di urgenza e la violazione dell’art. 328 c.p. e l’art. 17 del C.C.N.L. dei dirigenti medici.
Nel caso di specie, il Tribunale di Perugia aveva condannato l’imputato, un dirigente medico di primo livello presso la struttura complessa di cardiochirurgia dell’ospedale di S. Maria della Misericordia di Perugia, anche incaricato del servizio di reperibilità esterna, perchè dopo numerosi solleciti telefonici, si era rifiutato di intervenire non reputandolo necessario.
La sentenza di condanna veniva confermata dalla corte d’appello di Perugia e, pertanto, al mendico non restava che ricorrere alla Corte di Cassazione dove ha cercato di rappresentare ai giudici che il mancato intervento trovava giustificazione nel fatto che aveva lasciato un collega ad occuparsi del caso.
Il collega però non era specializzato in cardiochirurgia come l’imputato e, l’intervento che è stato effettuato sul paziente, richiedeva la sua competenza specialistica.
La Cassazione ha precisato che la “Corte territoriale avrebbe dovuto accordare nella specie all’imputato il margine discrezionale di natura tecnica in ordine alla necessità ed urgenza del suo intervento, in conformità all’orientamento della Corte di legittimità che lo esclude solo se esso esuli dal criterio di ragionevolezza tecnica ricavabile dal contesto e dal protocolli medici. In realtà, conclude sul punto il ricorrente, la Corte territoriale nega al sanitario il riconoscimento della discrezionalità tecnica legando l’obbligo non alla effettività della situazione ma a fattori esterni.”
Gli ermellini continuano affermando che “secondo il ricorrente le norme di legge invocate, invece, nulla dicono al riguardo dell’obbligo del sanitario rimandando alla disciplina interna dell’Ente.” Al punto che “la Corte territoriale ha ritenuto integrata la condotta materiale del delitto contestato ritenendo infondata la versione difensiva secondo la quale l’omesso intervento dell’imputato in ospedale fosse giustificato da una precisa scelta clinica, dovuta all’inutilità di procedere sul minore che non si sarebbe salvato.“
La Corte ha quindi concluso confermando la sentenza di condanna inflitta al medico precisando che “è orientamento di legittimità consolidato quello secondo il quale il servizio di pronta disponibilità previsto dal d.P.R. 25 giugno 1983 n. 348 è finalizzato ad assicurare una più efficace assistenza sanitaria nelle strutture ospedaliere ed in tal senso è integrativo e non sostitutivo del turno cosiddetto di guardia. Ne consegue che esso presuppone, da un lato, la concreta e permanente reperibilità del sanitario e, dall’altro, l’immediato intervento del medico presso il reparto entro i tempi tecnici concordati e prefissati, una volta che dalla Sede ospedaliera ne sia stata comunque sollecitata la presenza.“
Condivisibile quanto hanno deciso i giudici della Cassazione. Certo, questa sentenza non riporterà in vita il giovane ragazzo nè potrà mai consolare i familiari per la perdita subita però potrà ridare orgoglio alla medicina italiana, che non vedrà questa decisione come una sconfitta anzi, sarà il mezzo per differenziare i camici bianchi, mettendo da un lato chi abbandona il paziente per fare altro e chi invece lavora seriamente e onestamente, sacrificando famiglia e tempo libero e, soprattutto, senza guardare l’orologio mentre sta visitando un paziente.
La medicina in Italia non è il massimo. Passiamo dall’eccellenza al degrado sia riguardo alle strutture che riguardo ai medici. Purtroppo, spesso il degrado e l’incompetenza la scopriamo solo con le sentenze.
Cassazione, il medico reperibile deve sempre recarsi in ospedale per i casi urgenti
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_13327.asp