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Corte di Cassazione, sez. Lavoro, 7 ottobre 2016, n. 20210

Presidente Venuti – Relatore De Gregorio

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Milano, adita da C.F. avverso la pronuncia, pubblicata mediante deposito il 10 marzo 2011, con il rigetto delle domande del predetto, in parziale riforma della stessa, con sentenza del 13 dicembre 2012 / sei giugno 2013, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato da UNIRELAB s.r.l.. Il 24 luglio 2009, con la condanna di parte convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al risarcimento del danno, come ivi precisato, detratto l’aliunde perceptum come da scheda professionale ed estratto conto previdenziale I.N.P.S.; compensava per la metà le spese di lite, per il resto liquidate a carico della soccombente, avendo infatti respinto l’interposto gravame relativamente alle altre domande del C. , anch’esse respinte in primo grado.
Al riguardo, per quanto nella specie ancora interessa, secondo la Corte milanese, previo esame della contestazione disciplinare in data 9 luglio 2009 (relativa ad assenze per malattia come da certificati medici attestanti Impedimento di recarsi al lavoro, essendo impossibile qualsiasi forma de deambulazione… era tuttavia emerso in base alle disposte investigazioni che tra il 17 ed il 19 giugno, giorni nei quali era assente per malattia, che egli si spostava ripetutamente dalla sua abitazione, talvolta utilizzando addirittura l’automobile o un motociclo, nonostante l’asserita impossibilità di trasferimento extradomestico), detta contestazione alludeva a simulazione della denunziata malattia e comunque ad un comportamento inadeguato poiché fattore di rischio di aggravamento della patologia e di ritardo della guarigione.


Gli accertamenti investigativi disposti da parte datoriale si riferivano agli ultimi tre giorni della malattia durata due mesi, nel corso dei quali il lavoratore era stato sempre trovato a casa in occasione di sei visite di controllo. Il predetto, inoltre, era regolarmente rientrato al lavoro alla scadenza indicata nell’ultimo certificato medico. Pertanto, ad avviso dei giudici dell’appello, non vi era alcuna prova che il comportamento del C. avesse prodotto effetti pregiudizievoli, nei sensi sopra indicati, secondo altresì la citata giurisprudenza (Cass. n. 6375/2011), essendovi anzi la prova del contrario. Né sussistevano sufficienti elementi per ritenere, sia pure in via presuntiva, che la malattia fosse stata simulata e che pertanto il fatto addebitato potesse costituire violazione di un qualche obbligo gravante sul lavoratore, così da influire sulla prosecuzione del rapporto. Ne derivava, pertanto, l’illegittimità dell’impugnato recesso.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la S.R.L. UNIRELAB con atto notificato a mezzo posta spedita il 22-10-2013, affidato a due motivi.
Il C. vi ha resistito mediante controricorso, secondo cui tra l’altro vi è stata opzione da parte sua ex art. 18 per l’indennità risarcitoria (circostanza confermata a pag. 29 del ricorso UNIRELAB, che quindi ha pure chiesto la condanna restituzione delle somme corrisposte in forza dell’impugnata pronuncia). Inoltre, ha eccepito l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso, circa il preteso mancato rispetto delle fasce di reperibilità, che non era stato specificamente contestato e neanche parimenti richiamato nella lettera di licenziamento, perciò mai oggetto, né in primo e nemmeno in secondo grado, di esame da parte dei giudicanti.
Le parti, ritualmente edotte, sono comparse alla pubblica udienza svoltasi come da verbale del 18 maggio 2016, peraltro senza depositare memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la società ricorrente deduce ex art. 360 co. 1 nn. 3 e 5 c.p.c. – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1375, 2105 e 2110 c.c. – omesso esame di un fatto decisivo per giudizio, che aveva formato oggetto di discussione, ossia la oggettiva potenzialità pregiudizievole della condotta tenuta dal lavoratore, avuto riguardo alla specifica malattia da costui lamentata (con asserito impossibilità di recarsi al lavoro).
La Corte di Appello avrebbe dovuto esaminare la potenzialità pregiudizievole del comportamento osservato dal C. , prescindendo dal rientro al lavoro di costui, tenendo presente esclusivamente la peculiarità della condotta nella specie osservata (uscite di casa, utilizzando anche autoveicolo e motociclo), in rapporto alle mansioni che il lavoratore sostenuto di non poter svolgere, ossia deambulare sino all’ufficio e rimanervi seduto alla scrivania; quindi, avrebbe dovuto poi valutare la compatibilità o meno della condotta tenuta in c. nza di malattia con l’esistenza effettiva di tale stato morboso, ovvero con l’adempimento degli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede nonché lealtà, tali da preservare per tutta la durate delle sue assenze la propria salute al fine di poter raggiungere quanto prima la completa e definitiva guarigione. Nulla di ciò era stato fatto, sicché si era completamente omesso di operare un raffronto tra la specifica malattia denunziata e le altrettanto specifiche condotte contestate, laddove la Corte territoriale si era in effetti limitata a ritenere legittimo il comportamento del lavoratore, operando un giudizio ex post, ossia tenendo conto dell’avvenuto rientro al lavoro.
Dunque, la motivazione posta a sostegno della sentenza impugnata era chiaramente viziata, sia perché fondata sull’omesso esame di un fatto decisivo e che aveva formato oggetto di puntuale discussione tra le parti, sia perché la Corte di Appello non aveva in alcun modo tenuto conto del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del C. , il quale In effetti non aveva dimostrato come il suo comportamento, ossia i propri reiterati spostamenti, fossero di per sé inidonei a pregiudicare lo stato di malattia o comunque da accelerare la sua guarigione o comunque ad accelerare la sua guarigione. E le medesime considerazioni valevano circa la prova dell’inidoneità della condotta a palesare la natura meramente simulata del proprio stato di malattia, tenuto conto della specifica patologia lamentata (lombosciataigla comportante forti dolori alla schiena ed al piede, certificata dalla prodotta documentazione – TAC 29-04-2009 e visita ortopedica del 5 giugno 2009).
L’impugnata sentenza era censurabile per il mancato apprezzamento di massime di esperienza e/o di nozioni di comune esperienza, di per sé sufficienti a dimostrare la grave potenzialità della condotta assunta dal lavoratore, nonostante li proprio asserito stato di malattia e nonostante li preteso stato morboso, donde l’integrazione del giustificato motivo soggettivo.
Per contro, con il ricorso introduttivo del giudizio, l’attore aveva ridimensionato li suo stato di malattia, assumendo di essere affetto da patologie che lo avevano afflitto e continuavano ad affliggerlo, causate da lievi malformazioni, probabilmente congenite, che non provocavano un’assoluta incapacità ad attendere a faccende domestiche, né l’utilizzo di scooter o di autovettura per brevi spostamenti connessi alle suddette attività, da ritenersi meno idonei a favorire la guarigione della deambulazione, che anzi verosimilmente con tali patologie si presentava assai più dolorosa e difficoltosa dall’uso di tali mezzi di locomozione.
L’attore non aveva fornito alcuna prova utile a scriminare la gravità della propria condotta, mentre la sentenza di appello nulla aveva motivato in ordine alla ragione per cui la condotta assunta dal lavoratore sarebbe stata ritenuta inidonea a palesare la natura simulata della malattia e/o comunque a pregiudicare la pronta guarigione del medesimo. I giudici di appello, invece, si erano limitati a sostenere che essendo gli accertamenti di parte datoriale relativi agli ultimi tre giorni del periodo di malattia ed avendo il C. ripreso il lavoro alla scadenza dell’ultimo certificato medico, non era provato che il comportamento di costui avesse prodotto effetti pregiudizievoli per la società.
Si era, in particolare, omesso di considerare che la natura della condotta andava valutata ex ante, in reazione alla natura dell’assunta patologia, sicché a prescindere dal danno concreto subito occorreva accertare se il dipendente avesse usato la dovuta diligenza durante il periodo di assenza per malattia. La necessità di assentarsi dal lavoro era strettamente connessa non solo al diritto del lavoratore di curare la sua salute, ma altresì al suo dovere di agevolare quanto prima possibile la guarigione e dunque la ripresa della prestazione lavorativa, obbligo da osservarsi per l’intero periodo, anche in prossimità della guarigione, tanto più come nel caso di specie di lamentata malattia connessa a malformazioni congenite, con conseguente costante rischio d’insorgenza di stati d’infiammazione.
Né era sufficiente che il lavoratore assente per malattia, sorpreso nell’espletamento di altre attività (fuori casa), giustificasse genericamente le proprie uscite, dovendo lo stesso dimostrarne la necessità e comunque la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative. Ma nulla di ciò fatto il C. , che non aveva provato alcuna particolare esigenza in ordine alle sue uscite extradomestiche, trattandosi di giustificazioni generiche ed evidentemente Inidonee a scriminare la sua condotta, avendo il lavoratore, fintantoché durano le sue assenze, l’obbligo di preservare la sua salute e di adottare ogni cautela necessaria a permettere il raggiungimento, nel più breve tempo possibile, della completa e definitiva guarigione.
Con il secondo motivo ex art. 360 comma 1, n. 5), c.p.c. la società ricorrente si duole dell’omesso esame di fatto decisivo ai fini del giudizio: mancato rispetto delle fasce di reperibilità(h. 10,00 / 12.00 – 17,00 / 19.00). Infatti, il giorno 17 giugno (2013 ?) 2009 era stata rilevata l’assenza del C. dalla sua abitazione dalle 16.26 alle 17,16; il 18 giugno, dalle 09.50, senza peraltro precisare l’orario di rientro; il giorno 19, era stata notato l’allontanamento da casa nella mattinata, con successivo rientro alle ore 12,00). Non erano state fornite giustificazioni al riguardo, o più precisamente in ordine alla indifferibilità delle rilevate assenze, avuto riguardo alla genericità di quanto in merito dichiarato dal C.
Ebbene, secondo la ricorrente, nonostante la contestazione fosse stata opportunamente formulata dalla società nelle proprie memorie difensive, la Corte di Appello non aveva inteso minimamente esaminare la questione omettendo al riguardo qualsiasi motivazione. Per contro, l’art. 41 lett. b) c.c.n.l. di settore consentiva il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo in caso di assenza ingiustificata per tre giorni consecutivi (presumibilmente da posto di lavoro), mentre l’art. 42 dello stesso contratto collettivo imponeva al lavoratore l’obbligo di avvertire l’amministrazione entro le ore 9 dello stesso giorno in caso di necessaria assenza dal proprio domicilio per sottoposizione a visita specialistica.
Tanto premesso, entrambe le anzidette vanno disattese in base alle seguenti considerazioni.
In primo luogo, deve osservarsi che il ricorso nulla precisa in ordine alla contestazione disciplinare (cui genericamente soltanto si accenna a pag. 8, punto 30, senza peraltro nemmeno alcun riferimento alla produzione, quindi eventuale, della lettera raccomandata 9 luglio 2009 ivi menzionata), essendosi in effetti limitato a riportare le risultanze della sola menzionata indagine investigativa, circa gli orari e i giorni in cui il C. era stata visto fuori casa, con la descrizione di quanto nella specie accaduto, ma senza riprodurre gli addebiti riguardo al pregiudizio, reale o potenziale, che tali condotte avrebbero comportato, segnatamente circa la guarigione (rallentamento o allungamento, oppure abbreviazione dei relativi tempi di recupero). Tali incidono, quindi, negativamente sulla autosufficienza dello ricorso, che invece a norma dell’art. 366 c.p.c. deve contenere, a pena di inammissibilità, tra l’altro, la sufficiente, ancorché sommaria, esposizione dei fatti della causa e la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e del contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda (v. altresì l’art. 369, co. II, n. 4 del medesimo codice di rito, secondo cui insieme col ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità, gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali lo stesso si fonda).
Quanto, poi, alle doglianze formulate al sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., segnatamente in ordine ai rilievi in punto di fatto evidenziati dalla UNIRELAB, posto che nella specie è applicabile il nuovo testo della suddetta disposizione processuale, trattandosi di sentenza emessa il 13 dicembre 2012 e pubblicata il successivo sei giugno 2013, va ricordato che nel giudizio di cassazione è precluso l’accertamento del fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori, tanto più a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in l. n. 134 del 2012, che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle parti (Cass. lav. n. 21439 del 21/10/2015).
In particolare, dopo la modifica dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ. ad opera dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. civ. sez. 6 – 3, n. 12928 del 09/06/2014. V. altresì Cass. sez. un. n. 8053 del 07/04/2014, secondo cui la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.i. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce del canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Inoltre, le Sezioni unite – con la stessa pronuncia n. 8053/14 – hanno precisato che il novellato art. 360, primo comma, n. 5, ha introdotto un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Di conseguenza, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, dello stesso codice di rito, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Parimenti, secondo Cass. Sez. 6 – L, n. 2498 del 10/02/2015, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie).
Nel caso qui in esame, pertanto, non è ravvisabile alcun vizio rilevante ai sensi del citato art. 360 n. 5, tenuto conto di quanto motivatamente accertato ed apprezzato dalla Corte di merito con la sentenza impugnata in ordine ai fatti di causa.
Né sussistono le prospettate violazioni o false applicazioni di legge, prospettate dalla ricorrente con il primo motivo, tenuto conto di quanto insindacabilmente accertato in punto di fatto dal competente giudice di merito e di quanto correttamente opinato in punto di diritto, richiamando il principio affermato da questa Corte con la citata sentenza n. 6375 del 21/03/2011, secondo cui la condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata – la cui gravosità non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena – senza svolgere una ulteriore attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento al danni dell’interesse del datore di lavoro, dovendosi escludere che il lavoratore sia onerato a provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all’attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro.
Quindi, la Corte territoriale, visto che la contestazione disciplinare alludeva alla simulazione della malattia denunziata e comunque ad un comportamento inadeguato, in quanto fattore di rischio di aggravamento della patologia e di ritardo della guarigione; considerato che i fatti contestati riguardavano unicamente gli ultimi tre giorni della malattia durata due mesi, nel corso dei quali il C. era sempre stato trovato in casa in occasione di sei visite di controllo e che era regolarmente rientrato al lavoro alla scadenza indicata; concludeva nel senso che non vi fosse alcuna prova che l’attore con tale comportamento avesse prodotto effetti pregiudizievoli nel senso precisato – essendovi anzi prova del contrario – e che non sussistevano elementi sufficienti per ritenere, ancorché in via presuntiva, che la malattia fosse stata simulata e che quindi il fatto addebitato integrasse violazione di un qualche obbligo a carico del lavoratore, donde l’illegittimità dell’Intimato recesso.
Pertanto, del tutto legittima appare l’anzidetta decisione, visto tra l’altro che l’onere probatorio riguardo al licenziamento de quo restava a carico di parte datartele, contrariamente a quanto sul punto affermato con il primo motivo di ricorso, in buona parte peraltro come visto carente nella sua esposizione, sicché non possono ad ogni modo rilevare le diverse pretese o aspettative della società, laddove d’altro canto non avrebbero alcun senso le fasce orarie di reperibilità per le visite di controllo nel caso in cui si pretendesse la costante presenza domiciliare del diretto interessato (cfr. anche Cass. lav. n. 5747 del 25/09/1986, secondo cui il giudice del merito, nello stabilire se l’allontanamento dalla propria abitazione del lavoratore assente per malattia configuri o meno violazione degli obblighi di correttezza e buona fede del dipendente, volti a consentire l’esercizio del potere di controllo attribuito al datore di lavoro dall’art. 5 L. n. 300/70, deve tener presente che l’Interesse del datore di lavoro a tale controllo va contemperato con l’esigenza di libertà del lavoratore. Peraltro – ove accertata – la violazione di detti obblighi legittima il licenziamento per giusta causa solo se, valutata non solo nel suo contenuto oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva e In relazione alle circostanze del caso concreto, appaia meritevole della massima sanzione espulsiva, avuto riguardo al principio di proporzionalità stabilita dallo art. 2106 c.c.).
Alla stregua, dunque, di quanto argomentato, ancorché sinteticamente ma comunque compiutamente, e valutato, in punto di fatto e di diritto, dalla Corte di merito non si riscontrano vizi o errori tali da poter inficiare l’impugnata decisione, essendo precluse al riguardo le diverse opinioni formulate dalla società ricorrente (cfr. tra l’altro Cass. sez. un. n. 24148 del 25/10/2013, secondo cui la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha Indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed al fini del giudizio di cassazione).
Quanto, poi, al mancato rispetto delle fasce di reperibilità, di cui al surriferito secondo motivo, parimenti la censura non merita pregio, dovendosi in primo luogo richiamare le precedenti osservazioni circa la rilevata carente autosufficienza del ricorso (artt. 366 e 369 c.p.c.), soprattutto per quanto concerne il rispetto del principi in tema di contestazione disciplinare ex art. 7 L. n. 300/70 (per cui non valgono, evidentemente, tra l’altro successive allegazioni contenute negli atti processuali e negli scritti difensivi), né rilevano, come sopra visto, difettose motivazioni alla luce del riformulato art. 360 n. 5 c.p.c.), laddove per altro verso d’altro canto nulla di preciso è stato ritualmente allegato da parte ricorrente in ordine al requisito della decisività, anch’esso parimenti richiesto dallo stesso art. 360, Co. 1, n. 5, ossia nel senso che la circostanza avrebbe di certo comportato un diverso esito della lite, favorevole alla parte ricorrente.
Per contro, almeno secondo buona parte della giurisprudenza, l’assenza del lavoratore dalla propria abitazione durante la malattia – oltre a dar luogo a sanzioni (quali la perdita del trattamento economico) comminate per violazione dell’obbligo di reperibilità facente carico sul lavoratore medesimo durante le cosiddette fasce orarie (art. 5, comma quattordicesimo, D.L. n. 496 del 1983, conv. in legge n. 638 del 1983) – può (perciò non necessariamente) integrare anche un Inadempimento sanzionabile (nel rispetto delle regole del contraddittorio poste dall’art. 7 Stat. Lav.) con una sanzione disciplinare, ove la condotta del dipendente Importi anche la violazione di obblighi derivanti dal contratto di lavoro (Cass. lav. n. 3837 del 03/05/1997. V. altresì Cass. lav. n. 4448 del 06/07/1988, secondo cui l’assenza del lavoratore dalla propria abitazione durante la malattia – benché possa dar luogo a sanzioni comminate per violazione dell’obbligo di reperibilità facente carico sul lavoratore medesimo durante le cosiddette fasce orarie ex art. 5, comma quattordicesimo, L. n. 638/ 1983 tuttavia non integra di per sé un inadempimento sanzionabile con il licenziamento, ove il giudice del merito motivatamente ritenga che la cautela della permanenza in casa – benché prescritta dal medico – non sia necessaria al fine della guarigione e della conseguente ripresa della prestazione lavorativa, trattandosi di obbligazione preparatoria, che è strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto e come tale non è esigibile di per sé indipendentemente dalla sua influenza sullo svolgimento della prestazione lavorativa, senza che possa rilevare – al fine della valutazione della gravità dell’inadempienza del lavoratore e della conseguente sua configurazione come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento – la circostanza che l’inadempimento suddetto abbia pregiudicato, seppur gravemente, la attività produttiva e l’organizzazione del lavoro nell’impresa del datore di lavoro.
V. ancora la già citata sentenza di questa Corte n. 5747 del 25/09/1986, secondo la quale la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, volti a consentire l’Esercizio del potere di controllo dall’art. 5, secondo comma, L. n. 300/70 legittima il licenziamento per giusta causa solo se, valutata non solo nel suo contenuto oggettivo ma anche nella sua portata soggettiva e in relazione alle circostanze del caso concreto, appaia meritevole della massima sanzione espulsiva, avuto riguardo al principio di proporzionalità stabilita dall’art. 2106 c.c.).
Invero, l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformato dall’art. 54, primo comma, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 – afferisce, nella prospettiva della novella che mira a ridurre drasticamente l’area del sindacato di legittimità Intorno al “fatti”, a dati materiali, ad episodi fenomenici rilevanti ed alle loro ricadute In termini di diritto, aventi portata idonea a determinare direttamente l’esito del giudizio (Cass. I civ. n. 5133 del 05/03/2014. Cfr. altresì Cass. lev. n. 25608 del 14/11/2013, secondo cui spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze dei processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità.
V. In senso analogo Casa. lav. n. 18368 del 31/07/2013, secondo la quale costituisce fatto o punto decisivo ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. quello la cui differente considerazione è Idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa.
Cfr. ancora la sentenza n. 3668 del 14/02/2013 di questa Corte, laddove si è affermato che la nozione di decisività concerne non il fatto, sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, attiene al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa. Infatti, se il vizio di motivazione per omessa considerazione di punto decisivo fosse configurabile sol per li fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice del merito, oppure se il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà fosse configurabile sol perché su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, il ricorso per cassazione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 si risolverebbe nell’investire la Corte di Cassazione del controllo sic et sempliciter dell’iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito).
Sta di fatto, comunque, che nel caso di specie non risulta in atti alcuna precisa preventiva contestazione disciplinare, occorrente ai sensi del citato art. 7, circa l’asserito mancato rispetto delle c.d. fasce di reperibilità (v. pag. 1-2 della sentenza impugnata, laddove soltanto risulta in parte riprodotta tra virgolette ed in corsivo la contestazione del 9 luglio 2009, ad ogni modo senza l’indicazione di alcun orario: “… è tuttavia emerso che nel periodo compreso tra il 17.06.2009 e il 20.06.2009 – giorni nei quali lei era assente per malattia – lei si spostava ripetutamente dalla propria abitazione, in alcun casi addirittura utilizzando l’automobile ed un motociclo, nonostante avesse dichiarato l’impossibilità di muoversi da casa“; v. altresì pag. 28 del ricorso laddove si ammette che la contestazione in ordine al mancato rispetto – degli anzidetti orari – era stata opportunamente formulata da UNIRELAB S.r.l. nelle proprie memorie difensive, ma evidentemente non nella dovuta preventiva contestazione disciplinare ai sensi dell’art. 7, in relazione alla quale per l’effetto deve esclusivamente presumersi intimato li licenziamento de quo). Ne deriva che, ritualmente, la Corte di Appello nessuna specifica ed apposita argomentazione ha dedicato in sentenza alla questione, qui poi dedotta dalla società ricorrente con il secondo mezzo d’impugnazione, appunto perché il licenziamento non risultava intimato sulla scorta di idonea contestazione riferita pure all’asserito mancato rispetto degli orari (invero neanche Indicati nella missiva del 9 luglio 2009, per quanto riportata dalla sola sentenza).
Pertanto, il ricorso va respinto con conseguente condanna della parte rimasta soccombente alle relative spese, oltre che al versamento dell’ulteriore contributo unificato come per legge.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore del controricorrente, in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali, oltre Euro 100,00 per esborsi, e rimborso spese generali al 15%, nonché accessori di legge.
Al sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza del presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

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