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Il referendum costituzionale chiamerà gli elettori a esprimersi su numerose questioni, tra cui principalmente la riforma del Senato (con la fine del bipolarismo perfetto e il nuovo modo di approvare le leggi) e il nuovo rapporto tra Stato e Regioni

 (qui tutti gli approfondimenti del caso). Questo ultimo aspetto, attualmente regolato dal titolo V della Costituzione, è al centro di un vivace dibattito.

Chi promuove la riforma, infatti, è per un nuovo accentramento dei poteri, cancellando in buona parte la riforma che nel 2001 aveva cercato di dare maggiori poteri alle Regioni – il cosiddetto federalismo. Tra le materie più calde rientra sicuramente la sanità pubblica, che rientra tra le principali voci di spesa statali (circa il 15% del bilancio totale) e uno dei diritti fondamentali inseriti in Costituzione (art. 32). Cosa succederà alla sanità con la riforma costituzionale?

21 sistemi sanitari diversi. La riforma del 2001, come detto, tendeva a dare maggiori poteri alle Regioni in molti settori. In particolare, l’attuale titolo V inserisce la sanità nelle materie concorrenti: lo Stato detta i principi generali, mentre le Regioni hanno potestà legislativa, ovvero si fanno carico di applicare concretamente i principi generali.

Nella pratica, questo ha significato che in 15 anni si sono formati 21 sistemi sanitari diversi. Ogni Regione, in sostanza, ha un proprio sistema sanitario. Alcune erogano dei servizi che altre non offrono. Alcune fanno pagare un ticket per delle prestazioni, altre le erogano gratuitamente. Alcune spendono un tot per comprare dei materiali (per esempio siringhe o protesi), altre spendono molto di più (in alcuni casi si arriva ad un aumento dell’800%).

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Come si è arrivati a questo? Per semplificare, sono tre i parametri che devono essere considerati.

I servizi minimi. I Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono i servizi e le prestazioni minime garantite dallo Stato e che sono uguali per tutta Italia. Sono, in pratica, i servizi minimi che lo Stato assicura per garantire il diritto alla salute.

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I Lea rappresentano la maggior parte dei fondi che lo Stato eroga alle Regioni, soprattutto per finanziare gli ospedali. I Lea sono stabiliti dallo governo centrale, ma sono le Regioni, nel concreto, ad applicarli. Le Regioni, inoltre, possono decidere, se ne hanno i fondi, di erogare anche servizi aggiuntivi. Per questo si parla di 21 sistemi sanitari diversi, ovvero ogni regione ha un proprio approccio (in base, sostanzialmente, alle proprie finanze) nell’applicare il diritto alla salute. I Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono i servizi e le prestazioni minime garantite dallo Stato e che sono uguali per tutta Italia. Sono, in pratica, i servizi minimi che lo Stato assicura per garantire il diritto alla salute. I Lea rappresentano la maggior parte dei fondi che lo Stato eroga alle Regioni, soprattutto per finanziare gli ospedali. I Lea sono stabiliti dallo governo centrale, ma sono le Regioni, nel concreto, ad applicarli. Le Regioni, inoltre, possono decidere, se ne hanno i fondi, di erogare anche servizi aggiuntivi. Per questo si parla di 21 sistemi sanitari diversi, ovvero ogni regione ha un proprio approccio (in base, sostanzialmente, alle proprie finanze) nell’applicare il diritto alla salute.

Gestire le risorse. Le Regioni, in questi 15 anni di federalismo sanitario, hanno speso molto male i fondi assegnati dallo Stato. In particolare, gli appalti indetti per garantire i Lea sono stati molte volte al centro di scandali per corruzione e inefficienza. Dal 2012 si è cercato di porre rimedio attraverso la Gestione sanitaria accentrata (Gsa), ovvero un centro di responsabilità regionale che tenesse i conti in ordine. Oltre alle Gas, le Regioni dovevano individuare anche un certificatore terzo, ovvero un ente o un responsabile imparziale che certificasse la regolare tenuta dei libri contabili. Tuttavia, anche in questo ambito, le Regioni mediamente hanno fallito nel creare la Gas e soprattutto nell’individuare un certificatore terzo indipendente.

Contenere le spese impazzite. Un sondaggio gastrico in Campania costa poco più di 6 euro, in Piemonte più di 120. Una garza costa al Piemonte 3 euro, alla Sicilia quasi 9. Le differenze non sono solo tra Regioni, ma anche all’interno stesso delle Regioni. Perché? Il problema sono le gare d’appalto, dove dominano corruzione e clientelismo. In un primo tempo si era pensato che le Centrali uniche di committenza potessero almeno uniformare i prezzi per un dato territorio, con la previsione (mai andata in porto) di creare Centrali di Committenza a livello nazionale. Non solo non si è raggiunto l’obiettivo, ma nel 2015 sono state censite circa 32 mila stazioni appaltanti presso un organo centrale, Consip. In sostanza, le stazioni appaltanti erano mediamente quattro per ogni singolo comune d’Italia. Negli ultimi anni il governo ha cercato di portare questo numero abnorme a circa 35 stazioni appaltanti. Tuttavia, l’autonomia regionale dettata dall’attuale titolo V rimane un limite a questa semplificazione.

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Cosa prevede la riforma. Lea, Gas e centrali uniche di committenza hanno creato un ambiente fortemente distorto e poco efficiente. I sistemi sanitari regionali hanno creato degli squilibri talmente grandi che si è diffuso il cosiddetto turismo sanitario (non solo all’estero): cittadini che si spostano da una regione all’altra (spesso dal sud al nord Italia) per avere cure migliori o a prezzi inferiori.

L’attuale testo dell’articolo 117 della Costituzione prevede che lo Stato abbia competenza esclusiva per “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. La competenza concorrente con le Regione riguarda solo la tutela della salute. Tutto il resto è, come abbiamo visto, affidato alla gestione delle Regioni.

La riforma Renzi-Boschi, invece, elimina la competenza concorrente, aggiungendo alla competenza esclusiva dello Stato le “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare”, mentre spetterà alle Regioni solo la “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali”.

In poche parole, nello spirito della riforma, lo Stato deciderà e le Regioni si occuperanno solo di mettere in pratica tali decisioni.

Il fronte del sì: garantire a tutti il diritto alla salute
I sostenitori del sì vedono nella centralizzazione della sanità l’unica via d’uscita per superare l’attuale malandato sistema sanitario nazionale su base regionale. Il premier Renzi ha riassunto così, in tv, l’impatto della riforma sul diritto individuale alla salute: “con il referendum si decide se lasciare tutta la sanità alle Regioni oppure dare stessi diritti a tutti i cittadini”.

In sostanza, i sostenitori della riforma ritengono che l’esperimento del federalismo sanitario abbia fallito e sia necessario tornare ad una pianificazione centrale affinché non vi siano più differenze tra chi si cura a Reggio Calabria e chi a Milano. La centralizzazione, inoltre, imporrebbe (nel medio periodo) dei prezzi standard nelle forniture di servizi e prestazioni. Questo dovrebbe rimettere i cardini alle spese (spesso impazzite) dei Servizi sanitari regionali. Attualmente l’Agenzia nazionale per i Sistemi sanitari regionali sta monitorando i prezzi regionali, per trovare un prezzo medio per prestazione al fine di armonizzarli tutti.

Il fronte del no: una riforma gattopardesca
I sostenitori del no, parafrasando Tomasi di Lampedusa, affermano che, con la riforma, tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. Insomma, le novità della riforma non potranno modificare la situazione attuale. Per tre ragioni.

In primo luogo perché ormai il livello di servizi e prestazioni non è più in mano alle Regioni, ma, de facto, è deciso dal ministero dell’Economia, attraverso i fondi che decide di stanziare (o di tagliare) alla sanità pubblica. In secondo luogo, lo spirito della riforma del 2001 del Titolo V era proprio quello di superare un centralismo che già aveva prodotti disavanzi di bilancio notevoli. Il nuovo centralismo imposto dalla riforma sarebbe, insomma, un ritorno al passato. In terzo luogo, si afferma, la riforma sarebbe solamente di facciata, perché comunque la programmazione e organizzazione della sanità locale rimarrebbe a livello locale: come oggi, lo Stato darebbe disposizioni generali e le Regioni si occuperebbero di metterle in pratica.

Giacomo Destro su ((http://www.wired.it/attualita/politica/2016/10/31/referendum-costituzionale-sanita-pubblica/))

 

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